Le modifiche dell’appello civile

Le modifiche dell’appello civile

Come è noto con la Legge n. 134/2012, che ha convertito con modifiche il D.L. 22 giugno 2012 n. 83 (1), sono state introdotte alcune importanti modifiche al codice di procedura civile, per garantire maggiore efficienza alla giustizia civile la cui lentezza e scarsa funzionalità è stata ritenuta da alcuni uno dei principali problemi per nuovi investimenti stranieri in Italia (2). Con la legge in questione si è voluto introdurre un filtro di ammissibilità dell’appello per definire senza ritardo quelle impugnazioni che non devono essere trattate nel merito; inoltre, è stato anche riformulato l’art. 360 n. 5 c.p.c., ammettendo il ricorso per cassazione nella sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, e prevedendo anche l’impossibilità di denunciare detto vizio nell’ipotesi in cui l’ordinanza di inammissibilità o la sentenza di rigetto dell’appello siano basate sulla adesione del giudice dell’impugnazione alla ricostruzione dei fatti così come contenuta nella sentenza impugnata.

I nuovi articoli 342 e 434 c.p.c.

Con riferimento alle modifiche concretamente apportate al processo di appello va ricordato anzitutto che la vecchia formulazione dell’art. 342 del codice di rito prevedeva che l’appello dovesse contenere “l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione nonché le indicazioni prescritte nell’articolo 163”; analogo poi era il contenuto dell’art. 434 c.p.c. (riguardante l’appello nel processo del lavoro) che effettuava un richiamo all’art. 414 c.p.c., che come è noto disciplina il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado nel rito del lavoro. Tali norme, nella loro originaria formulazione, non prevedevano conseguenze nella ipotesi di assenza di specificità dei motivi di gravame.

La giurisprudenza di legittimità, però, ha ritenuto che il requisito della specificità dei motivi dell’appello postulasse che alle argomentazioni della sentenza impugnata venissero contrapposte quelle dell’appellante, finalizzate ad inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime, in quanto le statuizioni di una sentenza non sono scindibili dalle argomentazioni che la sorreggono. È pertanto necessario che l’atto di appello contenga tutte le argomentazioni volte a confutare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della propria decisione, pena la inammissibilità dell’impugnazione stessa (3).

La nuova versione degli articoli 342 e 434 del codice di rito, dopo avere confermato la necessità della specificità dei motivi di gravame, aggiunge che l’appello deve contenere a pena di inammissibilità:

1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;

2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

Secondo parte della dottrina vi sarebbe il pericolo che alla dichiarazione di inammissibilità dell’appello ai sensi degli artt. 342 e 434 c.p.c. il giudice possa giungere senza alcuna valutazione della fondatezza delle censure contenute nel gravame limitandosi al solo accertamento della rispondenza dell’appello al modello come sopra stabilito dal legislatore. Inoltre, è stato anche sostenuto che la modifica degli articoli 342 e 434 c.p.c. non avrebbe apportato reali modifiche alla precedente normativa dato che l’indicazione delle parti della sentenza impugnata e l’elencazione delle ragioni poste a fondamento del gravame erano requisiti dell’appello già previsti dalle precedenti norme.

Quanto al primo elemento (riguardante l’errore di fatto), per esso deve tenersi conto che l’obbligo di motivazione è già previsto dal comma 1 dell’art. 342, di talché il n. 1), nella parte in cui richiede l’elencazione “delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado”, va interpretato nel senso che l’appellante non può certo limitarsi a criticare la sentenza impugnata, dovendo invece indicare i capi oggetto di gravame, ma pure spiegare in quali termini e per quali motivi il fatto deve essere ricostruito in maniera differente rispetto a quella del primo giudice.

Il n. 2) degli artt. 342 e 434 c.p.c., invece, non si limita a rendere necessaria la specifica indicazione della violazione di legge lamentata, ma aggiunge che la parte dovrà anche indicare le “circostanze” che l’hanno determinata e la “loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”. In sostanza il legislatore ha inteso stabilire che l’appellante indichi nell’atto di appello le ragioni per le quali l’errore di diritto denunciato ha determinato una decisione che, al contrario, sarebbe stata differente. In altri termini si potrà denunciare soltanto una violazione di legge che abbia provocato l’accoglimento o la reiezione della domanda e non già pure errori di diritto che, anche qualora corretti, non potrebbero determinare una differente conclusione della controversia.

Pertanto, con le modifiche sopra indicate, la parte deve valutare ora in modo approfondito la rilevanza della censura prima ancora di proporre l’appello al fine di evitare atti di gravame non in grado di garantire quanto richiesto dal medesimo appellante. Può però essere escluso che la riforma in oggetto abbia reso l’appello una impugnazione a critica vincolata poiché le condizioni di cui ai nn. 1 e 2 degli artt. 342 e 434 c.p.c. non devono sussistere entrambe ed i motivi di gravame non sono stati limitati soltanto ad alcuni tipi di errori, come confermato dalla relazione che ha accompagnato il decreto legge sopra indicato, nella quale il Governo ha espressamente escluso di volere limitare l’impugnazione di merito. Deve poi ritenersi che la inammissibilità dell’appello per mancanza degli elementi di cui agli artt. 342 e 434 c.p.c. deve essere pronunciata mediante sentenza e non già con l’ordinanza di cui all’art. 348 bis c.p.c.. A tali conclusioni si giunge sulla base del tenore letterale dell’art. 348 bis, che prevede l’ordinanza di inammissibilità nel caso in cui l’appello, sebbene ammissibile e procedibile, risulti privo di una ragionevole probabilità di essere accolto. D’altra parte la pronuncia che evidenzi soltanto la mancanza dei requisiti di forma dell’appello risulta priva di qualsiasi valutazione sul merito dello stesso, di talché essa potrà essere censurata in sede di legittimità soltanto per violazione dell’art. 342 o dell’art. 434 c.p.c.. Diversa, invece, è la declaratoria di inammissibilità prevista dall’art. 348 bis c.p.c., che consente il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado una volta valutata in modo negativo la prognosi di probabilità di accoglimento dell’appello.

È stato giustamente osservato, al riguardo, che se si esclude che la inammissibilità dell’appello per carenza dei requisiti di forma possa essere dichiarata con la ordinanza di cui all’art. 348 ter c.p.c., se ne deve trarre la conseguenza che detta inammissibilità dovrà essere dichiarata con la sentenza che definisce il giudizio, sentenza che nel rito ordinario, grazie alla introduzione del 4° comma dell’art. 351 c.p.c., disposta dall’art. 27 della legge 183/2011, dovrebbe essere pronunciata ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. già nella prima udienza di trattazione (4).

Gli articoli 348 bis e 348 ter c.p.c.

La Legge in esame ha anche introdotto nel codice di rito gli artt. 348 bis e 348 ter (5) i quali stabiliscono che il giudice di appello può dichiarare inammissibile l’impugnazione nei casi in cui essa non abbia “ragionevole probabilità” di essere accolta, con ordinanza pronunciata alla prima udienza di trattazione e succintamente motivata “anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi”. La stessa norma prevede anche che in caso di impugnazioni incidentali la inammissibilità potrà essere pronunciata solamente nella ipotesi in cui la prognosi negativa riguardi sia l’appello principale che quello incidentale. Nello stabilire tale principio la norma, però, richiama soltanto l’art. 333 del codice di rito, di talché deve ritenersi che l’ordinanza di inammissibilità non sarà impedita nel caso di impugnazioni incidentali tardive che saranno comunque assorbite dalla pronuncia di inammissibilità dell’appello principale, ai sensi dell’art. 334, comma secondo, c.p.c..

La predetta ordinanza di inammissibilità rende ricorribile per cassazione la sentenza di primo grado, con la impossibilità di censurare quale vizio di quest’ultima il mancato esame di un fatto decisivo per la decisione della controversia nella ipotesi in cui tale ordinanza si sia basata sulla adesione alla ricostruzione del fatto operata dal primo giudice. Tale filtro, però, non si applica agli appelli riguardanti controversie nelle quali l’intervento del P.M. sia obbligatorio ai sensi dell’art. 70 c.p.c. e per le cause definite con il rito sommario nel primo grado (6).

La prognosi sull’esito dell’appello è sostanzialmente riservata alla valutazione discrezionale del giudice del gravame che deve adottare soluzioni equilibrate per consentire una rapida decisione di quegli appelli che non meritano il dispendio di energie lavorative e, nel contempo, evitare di servirsi di tale strumento processuale in modo che possa sembrare come un superficiale esercizio della giurisdizione. Al riguardo appare opportuno ricordare che l’assenza di “una ragionevole probabilità di accoglimento” è una cosa diversa rispetto alla manifesta infondatezza, che ricorre soltanto nel caso in cui il gravame risulti privo di qualsiasi possibilità di essere accolto. Per ragionevole probabilità, al contrario, deve intendersi una valutazione prognostica favorevole simile a quella effettuata in sede cautelare sulla esistenza o meno del c.d. fumus boni iuris; pertanto, se all’esito del giudizio prognostico dovesse emergere anche una sola probabilità di accoglimento del gravame, l’appello sarà da considerarsi ammissibile e quindi deciso nel merito (7).

L’ordinanza in oggetto deve essere motivata “anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi” e pertanto deve ritenersi che l’inammissibilità dell’impugnazione a norma dell’art. 348 bis c.p.c. deve essere pronunciata nell’ipotesi in cui siano denunciati errori di diritto in ordine ai quali si sia già formato un consolidato orientamento giurisprudenziale in sede di legittimità al quale la Corte di Appello intende aderire. Per quanto riguarda le questioni di fatto, la ragionevole probabilità di accoglimento della impugnazione va esclusa nell’ipotesi di chiara discordanza tra la ricostruzione dei fatti operata dall’appellante rispetto alle evidenze istruttorie; va da sé poi che tanto più la gravata sentenza risulta adeguatamente motivata tanto più l’impugnazione deve contenere delle precise e puntuali censure rispetto alla decisione adottata dal primo giudice. È quindi ragionevole ritenere che l’adozione della ordinanza di inammissibilità debba limitarsi alle sole ipotesi di impugnazioni contenenti questioni giuridiche già decise dal S.C. in senso difforme rispetto a quanto sostenuto dall’appellante nonché per il caso di sentenze la cui valutazione del fatto sia fatta propria anche dalla Corte di Appello poiché non adeguatamente censurata dalla tesi sostenuta nell’atto di gravame. Deve poi confermarsi la costituzionalità delle norme in questione considerato che, come è noto, il solo limite imposto dall’art. 111 Cost., settimo comma, viene rispettato considerato che è sempre possibile proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado nell’ipotesi di violazione di legge. Inoltre, la CEDU con la sentenza 21/6/2001 (Dobric/Serbia) ha statuito che è lecito limitare l’accesso al mezzo di impugnazione, salvo che tale restrizione “non persegua uno scopo legittimo ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito”. Va poi ricordato che il legislatore ha escluso la impugnabilità della ordinanza emessa a norma dell’art. 348 bis c.p.c. prevedendo, in tale fattispecie, il ricorso per cassazione direttamente avverso la sentenza di primo grado.

Le prove in appello

La Legge n. 134/2012 si segnala anche per avere ancora più ristretto la possibilità di chiedere nuovi mezzi di prova e di produrre nuovi documenti in grado di appello ed ha eliminato dall’art. 345 ogni riferimento alla indispensabilità ai fini della decisione. Le uniche attività istruttorie che possono essere ammesse negli ordinari processi civili in grado di appello sono quindi soltanto quelle che la parte aveva chiesto nel primo grado e che non sono state ammesse e quelle in relazione alle quali la parte “dimostri di non aver potuto proporre o produrre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”.

Per il processo di appello nel rito del lavoro, invece, è rimasto invariato l’art. 437, secondo comma, c.p.c. che prevede che non sono ammessi nuovi mezzi di prova (tranne il giuramento estimatorio), salvo che il collegio anche d’ufficio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. Tale diversa disciplina si giustifica con il fatto che nel rito del lavoro il sistema di preclusioni in materia di prove trova un contemperamento — ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento — nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma, c.p.c., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse (8).

Il raddoppio del contributo unificato

Tra le novità in materia di appello civile va segnalata anche la disposizione contenuta nell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115; tale comma stabilisce espressamente che “Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Tale disposizione si applica ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge medesima (9). Ne consegue che con la sentenza (o con l’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c.) che rigetta integralmente l’impugnazione (principale od incidentale) o la dichiara inammissibile od improcedibile il giudice deve ora anche dare atto della sussistenza dell’obbligo per la parte soccombente del versamento del contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione medesima. Per stabilire a quali procedimenti applicare la norma in oggetto deve farsi riferimento alla data di proposizione della impugnazione (principale od incidentale) e non già a quella di introduzione del giudizio di primo grado, come statuito più volte dalla Corte di legittimità che, nell’applicarla, ha tenuto conto dell’epoca di proposizione del ricorso ex art. 360 c.p.c. (10).

Infine, potrebbe nascere il dubbio se il raddoppio in questione sia applicabile soltanto alle impugnazioni indicate dal codice di procedura civile (11) od anche a quelle previste da leggi speciali come, ad esempio, il reclamo ai sensi dell’art. 1, comma 58, della L. 92/2012 in materia di licenziamento (12). Al riguardo deve ritenersi che la disposizione in parola — stante la sua evidente ratio di scoraggiare la proposizione di impugnazioni infondate, inammissibili od improcedibili mediante la previsione di un ulteriore versamento del contributo unificato — si applichi anche ai gravami non previsti espressamente dall’art. 323 c.p.c. per i quali sia comunque previsto il pagamento del contributo di cui sopra.

Giorgio Poscia

Magistrato della Corte di Appello di Roma

____________________________________

(1) Intitolata “Misure urgenti per la crescita del Paese”;

(2) Si veda, ad esempio, la relazione del Governatore della Banca d’Italia del 31 maggio 2011;

(3) Cfr., tra le altre, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 1651 del 27/01/2014;

(4) Annalisa Dipaolantonio “La riforma del giudizio di appello”;

(5) A norma degli artt. 436 bis e 447 bis c.p.c. tali disposizioni sono applicabili anche al processo del lavoro ed in materia di locazione;

(6) La relazione del Governo ha spiegato che tale eccezione è fondata sulla natura pubblicistica del primo tipo di controversie e, quanto alle seconde, sulla volontà di rendere sempre più ampia l’utilizzazione di tale rito speciale;

(7) Vedi Annalisa Dipaolantonio “La riforma del giudizio di appello”;

(8) Vedi Cass., Sez. U, Sentenza n. 8202 del 20/04/2005;

(9) Quindi dal giorno 31 gennaio 2013;

(10) Vedi, tra le altre, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 2014;

(11) A norma dell’art. 323 c.p.c. esse sono il regolamento di competenza, l’appello, il ricorso per cassazione, la revocazione e l’opposizione di terzo;

(12) Meglio nota come Legge Fornero.