La sicurezza alimentare

La sicurezza alimentare a tutela della libera circolazione delle merci e della salute alla luce della normativa europea e nazionale

 

I. Gli aspetti generali della sicurezza alimentare

Secondo la dottrina la «sicurezza alimentare» presenta un duplice significato di «sicurezza alimentare quantitativa», con l’obiettivo di risolvere il problema della fame e delle forme di sperequazione alimentare, e di «sicurezza alimentare qualitativa», che risponde ad esigenze di commercializzazione e di tutela della salute (1). Secondo tale orientamento dottrinario, nelle società meno evolute è prevalente il problema della quantità alimentare, mentre nelle società avanzate sussiste la questione relativa alla qualità alimentare. In riferimento a quest’ultimo profilo, gli alimenti presentano numerosi rischi per la salute delle persone, a seguito della globalizzazione dei mercati e del continuo progresso tecnologico, che perseguono lo scopo di ottenere al minore costo alimenti «non convenzionali», sostitutivi di quelli tradizionali (2).

In tale ambito, le nuove conoscenze e le innovazioni tecnologiche hanno diversificato i prodotti alimentari, ed al contempo hanno aumentato il rischio derivante dal consumo dei prodotti alimentari (3). Inoltre, nei Paesi industriali si assiste ad uno sfruttamento delle risorse naturali e ad una situazione di incertezza nei mezzi di ricerca e di controllo, in quanto non è possibile prevedere, né verificare, né quantificare, le conseguenze derivanti dall’utilizzo di tali tecnologie nella produzione alimentare (4). Inoltre, la presenza sul territorio di aree ad elevato impatto ambientale e la presenza di contaminanti può determinare un ulteriore rischio per i consumatori (5). Gli effetti nocivi dell’utilizzazione delle moderne tecnologie si possono manifestare a distanza di tempo, a seguito di continue esposizioni a sostanze o ingestione di alimenti, in modo che minime dosi potrebbero ledere la salute a seguito di un periodo di latenza.

A tale stregua, negli ultimi anni si è affermata una dimensione etica dell’alimentazione, che ha portato ad una maggiore attenzione alle modalità di produzione e di consumo del cibo, nel rispetto della tutela della salute, della qualità degli alimenti e delle dinamiche commerciali europee ed internazionali (6). Dal lato dei consumatori si è diffusa una coscienza di acquistare prodotti che riducano al minimo i danni alla salute ed un forte timore nei confronti delle nuove forme di intervento dello sviluppo tecnologico in tale settore. Dal lato dei produttori alimentari è stata avvertita una maggiore attenzione nella cura dell’intero percorso dell’alimento, dalla produzione secondo «Buone Pratiche Agricole», alle modalità di approvvigionamento, di lavorazione nelle fasi di condizionamento, fino alla conservazione, trasformazione ed alla distribuzione attraverso la «tracciabilità di filiera» (7). Tale obiettivo ha portato ad un incremento dell’impegno nella vigilanza, nella valutazione dei rischi e nella revisione delle sostanze utilizzate.

Il presente articolo affronterà le questioni relative alla «sicurezza alimentare qualitativa», in base agli interventi del legislatore europeo e nazionale. La presenza di un sistema normativo multilivello (fonti internazionali, dell’Unione Europea, nazionali e regionali) ha reso problematica l’attuazione di un equilibrio tra gli interessi meritevoli di tutela delle imprese produttrici di alimenti e dei consumatori. Al riguardo, è necessaria la massima cooperazione dei Paesi coinvolti, al fine di ridurre le forme di protezionismo ed attuare il libero scambio dei prodotti alimentari nell’Unione Europea. Inoltre, occorre porre degli argini agli effetti dirompenti dell’innovazione tecnologica nell’ambito alimentare, valutare le posizioni espresse dai gruppi di pressione ed al contempo lasciare spazio al cambiamento delle abitudini dietetiche e delle tradizioni alimentari (8).

 

II. Le fonti della legislazione alimentare nell’Unione Europea ed in Italia verso la libera circolazione dei prodotti e la sicurezza alimentare

1. La tutela della salute nella Costituzione e nell’ordinamento giuridico europeo

I principali problemi da affrontare relativi alla sicurezza alimentare riguardano la differente applicazione della legislazione in materia di sicurezza dei prodotti tra uno Stato membro e l’altro. Al riguardo, occorre rilevare che le prescrizioni legislative relative alle merci sono complesse per gli operatori economici, che devono affrontare diversi atti legislativi da applicare ad un prodotto alimentare. Inoltre nella legislazione sui prodotti sono emerse ulteriori incongruenze, quali l’utilizzazione di terminologie differenti per descrivere concetti comuni alla legislazione europea (9).

Un ulteriore problema riguarda la presenza di interessi e di comportamenti contrapposti dei soggetti coinvolti, tra la tutela della libera circolazione dei prodotti alimentari nel mercato interno e la tutela della salute. A tale stregua, è necessario e opportuno ricostruire il «puzzle» normativo. In primo luogo, giova effettuare un raffronto tra l’art. 32 e l’art. 41 della Costituzione italiana.

L’art. 32 della Costituzione presenta un duplice oggetto di tutela della salute, attraverso la previsione di situazioni di vantaggio sia individuali che collettive (10). In particolare, il secondo comma dell’art. 32 della Cost., secondo cui «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana», consente di bilanciare le situazioni di vantaggio della persona con altri interessi della collettività (11).

In tale contesto, l’art. 41 della Costituzione prevede che la libertà economica non può essere in contrasto con la sicurezza della persona e che la legge determina «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Secondo parte della dottrina, da tale norma consegue «(…) la doverosità (…) del controllo pubblico sulle attività d’impresa in funzione dei fini sociali che debbono essere comunque perseguiti» (12).

Sul rapporto intercorrente tra la tutela della salute, prevista dall’art. 32 Cost., e la libertà d’impresa, espressa dall’art. 41 Cost., vi è un dibattito a livello dottrinario (13). Al riguardo, parte della dottrina ritiene applicabile un bilanciamento tra l’interesse alla salute e l’interesse economico delle imprese (14). In particolare, secondo tale impostazione, il bilanciamento tra il diritto alla salute e gli altri diritti tutelati dalla Costituzione deve essere effettuato secondo il principio di proporzionalità (15).

Tuttavia, secondo un’altra opinione, «la tecnica del bilanciamento presuppone l’inesistenza di una gerarchia costituzionalmente vincolante di interessi e valori. Se questa gerarchia vi fosse, nessuna comparazione sarebbe possibile: si imporrebbe sempre e comunque il sacrificio dell’interesse e/o del dovere sotto ordinato» (16).

Dopo avere analizzato il diritto alla salute e quello alla libera iniziativa economica, previsti dalla nostra Costituzione, occorre dedicarsi all’esame dell’ordinamento dell’Unione Europea (17). Al riguardo, è necessario effettuare alcune precisazioni. La libera circolazione delle merci è uno dei pilastri del mercato unico e rappresenta il nucleo dello sviluppo dell’Unione europea. Dagli anni ’70 la legislazione dell’Unione Europea ha inteso garantire una protezione uniforme del consumatore, dell’ambiente, delle risorse energetiche, attraverso la libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione. A tale stregua, è stata elaborata una strategia integrata, al fine di garantire un elevato livello di tutela della salute, attraverso misure coerenti e controlli adeguati (18). In tale contesto, l’azione europea relativa alla salute è sussidiaria rispetto all’azione dei Paesi membri, quindi l’Unione europea ha svolto un ruolo di coordinamento, a differenza delle politiche europee di armonizzazione attuate nel settore agricolo (19). A tale stregua, l’azione europea a tutela del diritto alla salute, da un lato ha dato luogo a misure dirette attraverso la previsione di una normativa secondaria e dall’altro ha determinato l’adozione di documenti programmatici di soft law (20).

In riferimento ai consumatori, la politica europea ha sostenuto ed integrato le politiche nazionali, a tutela della sicurezza alimentare e della salute.

Al riguardo, la Carta dei diritti fondamentali dell’uomo, pur riconoscendo all’art. 16 la libertà d’impresa, conformemente al diritto dell’Unione ed alle legislazioni e prassi nazionali, tutela altri interessi, quali la salute, recitando all’art. 35 che «Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana», ed i consumatori, sancendo all’art. 38 che «Nelle politiche dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori».

Nella normativa prevista dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la salute è tutelata al pari dell’impresa e del consumatore. Al riguardo, l’art. 3 prevede che l’Unione europea «Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente (…)». Secondo l’art. 6 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, l’Unione Europea sostiene, coordina e completa l’azione degli Stati membri a tutela e per il miglioramento della salute umana. L’art. 168 del TFUE (ex art. 152 del TCE) prevede al primo comma che nell’attuazione delle politiche ed attività dell’Unione Europea è garantito un livello elevato di protezione della salute umana, attraverso la prevenzione delle malattie ed affezioni e l’eliminazione delle fonti di pericolo. Secondo tale disposizione, «L’azione dell’Unione, che completa le politiche nazionali, si indirizza al miglioramento della sanità pubblica, alla prevenzione delle malattie e affezioni e all’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute fisica e mentale. Tale azione comprende la lotta contro i grandi flagelli, favorendo la ricerca sulle loro cause, la loro propagazione e la loro prevenzione, nonché l’informazione e l’educazione in materia sanitaria, nonché la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero» (21).

In merito alla protezione dei consumatori, l’art. 169 del TFUE (ex art. 153 del TCE) recita che «(…) l’Unione contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi» (22). In particolare, il Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 novembre 2011 ha elaborato un programma per la tutela dei consumatori, in riferimento al periodo 2014-2020. Questo Regolamento persegue l’obiettivo di garantire ai cittadini la partecipazione al mercato unico, attraverso una maggiore tutela nell’acquisto di beni e di servizi. Tale coinvolgimento dei consumatori implica la definizione di un quadro normativo in grado di individuare gli strumenti e di colmare le lacune delle norme e delle prassi esistenti in Europa. Attraverso un processo di educazione, di informazione e di sensibilizzazione si persegue l’obiettivo di realizzare un contesto ove i consumatori possano scegliere le offerte migliori relative ai prodotti ed ai servizi (23).

A completamento di tale ricostruzione normativa s’inserisce l’art. 191 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (ex art. 174), che prevede il principio di precauzione a tutela non solo dell’ambiente, ma anche della salute (24). Si tratta di un principio generale codificato in ambito europeo, che pone l’obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, attraverso una tutela anticipata rispetto alla fase dell’applicazione del principio di prevenzione ed in assenza dell’accertamento di un nesso causale tra il fatto dannoso e gli effetti pregiudizievoli derivanti. A tale stregua, l’applicazione del principio di precauzione, a fronte di una situazione in cui non sono stati identificati gli effetti potenzialmente pericolosi di un prodotto o di un procedimento ed in cui la valutazione scientifica preliminare non ha determinato il rischio con sufficiente certezza, ha consentito di impedire la distribuzione o di ritirare i prodotti alimentari pericolosi dal mercato, facendo prevalere in tal modo la protezione del diritto alla salute o dell’ambiente sugli interessi economici (25).

Tale principio deve essere coordinato con quelli di libera concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi previsti dal Trattato dell’Unione Europea.

A completamento del quadro normativo esposto, occorre esaminare le modalità di controllo negli scambi dei prodotti alimentari nell’ambito dell’Unione Europea.

In particolare, l’art. 36 del TFUE (ex art. 30 del TCE) prevede che «Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, (…). Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri» (26). A tale stregua, lo Stato membro, prima di importare animali o prodotti di origine animale da un Paese dell’Unione Europea, può procedere a controlli di natura non discriminatoria (27). In particolare, ai sensi dell’art. 10 del regolamento (CE) n. 1235/2008, la Commissione Europea redige un elenco degli organismi e delle autorità di controllo riconosciuti ai fini dell’equivalenza competenti per l’effettuazione dei controlli e il rilascio dei certificati nei Paesi terzi e pubblica detto elenco nell’allegato IV del regolamento (28). Il requisito generale per l’esportazione di prodotti alimentari è costituito dalla conformità alle disposizioni in materia di igiene degli alimenti vigenti nel Paese esportatore. Il requisito di base nell’esportazione negli Stati è l’osservanza dei Regolamenti (CE) 852/2004 e 853/2004 (29). Pertanto è indispensabile per il produttore garantire la tracciabilità dei prodotti alimentari dall’origine fino al tavolo del consumatore. In situazioni di potenziale pericolo per il consumatore nella produzione di un alimento, è necessaria l’applicazione di procedure in grado di individuare il prodotto immesso nel mercato e di ritirarlo anche quando è stato esportato in altri Paesi. La sicurezza dei prodotti esportati esige l’osservanza di condizioni di reciprocità con i Paesi terzi, ai quali devono essere richieste le stesse garanzie di sicurezza dei prodotti importati in Italia (30). Le iniziative perseguiranno l’obiettivo specifico del rafforzamento e del miglioramento della sicurezza dei prodotti attraverso un’efficace sorveglianza del mercato in tutta l’UE.

 

2. La sicurezza alimentare nell’ordinamento giuridico europeo e nazionale

Dopo avere delineato i principi della normativa europea a tutela del diritto alla salute, occorre ripercorrere l’evoluzione normativa sulla sicurezza alimentare, che nel perseguimento di differenti interessi coinvolge una pluralità di soggetti e prevede piani di azioni con differenti procedure.

In un primo momento, la normativa sulla sicurezza dei prodotti commercializzati all’interno della Comunità europea (la direttiva n. 92/59/CEE, sostituita dalla direttiva n. 2001/95/CE, relativa ai prodotti industriali, compresi quelli alimentari) prevedeva l’obbligo per gli operatori di immettere sul mercato prodotti sicuri per la salute delle persone (31). Dalla seconda metà degli anni novanta, a seguito di contaminazioni dei cibi (le uova alla diossina, la salmonella, la crisi della mucca pazza), la disciplina comunitaria della produzione e della commercializzazione degli alimenti e dei mangimi è stata modificata. In particolare, secondo una strategia alimentare perseguita dall’Unione Europea, sono stati previsti una legislazione sulla sicurezza dei prodotti alimentari e dei mangimi per animali ed un fondamento scientifico e normativo alle decisioni ed agli atti di controllo (32). Al riguardo, l’ordinamento europeo ha previsto il controllo degli alimenti nelle fasi dell’iter di produzione alimentare, dalla produzione, trasformazione, trasporto, distribuzione fino alla fornitura al consumatore (33). In tale contesto, l’ordinamento europeo ha previsto una tutela preventiva e successiva a favore del consumatore.

La tutela preventiva trova fondamento normativo nella direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2001/95/CE, relativa alla sicurezza generale dei prodotti (34), che persegue una duplice ratio di tutela della salute del consumatore e di promozione del libero scambio dei prodotti alimentari. In riferimento a quest’ultimo profilo, il terzo considerando intende superare gli ostacoli agli scambi, le disparità degli standard di sicurezza negli Stati membri e le distorsioni determinate dalla concorrenza nel mercato interno. In relazione al consumatore, il quarto considerando afferma l’esigenza di proteggerne la salute e la sicurezza. A tale stregua, la direttiva, in conformità al principio di precauzione, prevede dei requisiti di sicurezza per ogni prodotto immesso sul mercato e destinato al consumo. In particolare, al fine di un’elevata tutela della salute delle persone, un prodotto alimentare si ritiene sicuro quando non presenta alcun rischio, o presenta rischi ridotti ed accettabili con l’utilizzazione (35).

Una tappa fondamentale della legislazione alimentare comunitaria è costituita dal regolamento n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002 che «stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare» (36). Il reg. n. 178 del 2002 persegue il fine di contemperare la libera circolazione degli alimenti con i principi di sicurezza alimentare, ispirati alla ricerca di un elevato livello di tutela della salute e degli animali ed al controllo della circolazione di alimenti e di mangimi lungo l’intera filiera del prodotto agricolo, «from farm to table» (37). In particolare, tale regolamento ha previsto una riforma della legislazione sulla produzione e commercializzazione di alimenti, in riferimento alla sicurezza dei prodotti alimentari e nei processi produttivi.

Nel rapporto tra la normativa sulla sicurezza generale dei prodotti destinati ai consumatori (la direttiva n. 2001/95) ed il regolamento n. 178/2002 e le altre fonti relative alla legislazione alimentare, l’art. 1 della direttiva n. 2001/95 prevede che «ciascuna delle sue disposizioni si applica nella misura in cui non esistano, nell’ambito della normativa comunitaria, disposizioni specifiche aventi lo stesso obiettivo che disciplinano la sicurezza dei prodotti in questione» (38). In particolare, la previsione dei principi della legislazione alimentare nel reg. n. 178 del 2002 ha consentito l’emanazione di ulteriori regolamenti, direttive e decisioni, a disciplina di aspetti della sicurezza alimentare. A tale stregua, in presenza di una normativa specifica, questa si applica per gli aspetti o le categorie di rischi non previsti dalla legislazione generale (39). A titolo esemplificativo, si pensi alla normativa nel settore degli organismi geneticamente modificati, prevista nel Regolamento (CE) n. 1829/2003 e nel Regolamento (CE) n. 1830/2003, al Regolamento (CE) n. 1333/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha istituito un elenco dell’Unione di additivi alimentari, e alle direttive n. 2008/60/CE, n. 2008/84/CE, n. 2008/128/CE e n. 2009/10/CE, riguardanti i requisiti di purezza specifici degli additivi alimentari (40).

A livello europeo, sono rinvenibili vari settori d’intervento e di coordinamento nell’ambito della ricerca e della regolamentazione, mentre a livello nazionale è prevista una disciplina di settore ed una collaborazione tra gli operatori della filiera alimentare. In riferimento al riparto di competenze, si rileva che il regolamento n. 178 del 2002 ha concentrato le funzioni legislative in capo alle istituzioni comunitarie, mentre la Commissione, gli organi di governo degli Stati membri e le Autorità nazionali ed europee con i rispettivi comitati ed organi svolgono un’azione di «co-amministrazione» ai fini del raggiungimento della sicurezza alimentare (41). Al riguardo, l’art. 23, lett. g), assegna all’Autorità europea per la sicurezza alimentare un ruolo e compiti differenti, quali la creazione di un sistema di reti tra le organizzazioni, ed attribuisce la responsabilità del funzionamento di tali strutture (42).

Nei rapporti tra normativa europea e nazionale si applica il principio del coordinamento. Stante ciò, alla normativa di matrice europea sopra esposta si affianca la disciplina dei singoli Stati membri, al fine di prevenire i rischi per la salute e la sicurezza del consumatore. Al riguardo, l’art. 2, lett. a) e b), del D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206 prevede, quali diritti fondamentali riconosciuti ai consumatori ed agli utenti, la tutela della salute e la sicurezza e la qualità dei servizi.

In riferimento specifico alla sicurezza alimentare, la legislazione europea non ha escluso l’intervento normativo degli Stati membri. Al riguardo, il Reg. CE n. 178 del 2002 ha richiesto un’azione di organizzazione di ogni singolo Stato membro del proprio sistema in conformità al sistema di food safety (43). Inoltre, l’attuale art. 117, comma 3, della Costituzione assegna le materie dell’alimentazione e della tutela della salute alla competenza concorrente di Stato e Regioni. A tale stregua, lo Stato predispone la normativa di principio, mentre le Regioni dovrebbero fissare le norme di attuazione (44). Al riguardo, lo strumento di raccordo tra i due livelli, statale e regionale, è la Conferenza Permanente Stato-Regioni, che ha elaborato le linee guida in riferimento ai Reg. CE nn. 852 e 853 del 2004, n. 882 del 2004 e n. 2073 del 2005 (45).

Il decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività», nel Titolo II, Capo III, dall’art. 62 all’art. 67 ter, disciplina i settori agroalimentare e della pesca, in relazione alle numerose pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare. In particolare, l’articolo 62 disciplina i contratti stipulati tra gli operatori della filiera agroalimentare con esclusione del consumatore finale. La ratio dell’articolo è di tutelare le relazioni in materia di cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari da comportamenti e condizioni che possono ledere il buon andamento del sistema, a danno del contraente debole. Al riguardo è previsto un sistema sanzionatorio, che introduce garanzie affinché in tali rapporti vi siano condizioni di contrattazione prive di distorsione.

Il comma 1 specifica che i contratti aventi ad oggetto la cessione di beni agricoli ed alimentari devono essere conclusi in forma scritta. Il comma 2 identifica le fattispecie di comportamenti considerati «sleali» e che, ai sensi della norma proposta, vengono vietati nelle relazioni commerciali tra operatori economici della filiera agroalimentare. Inoltre il comma 3 del presente articolo integra ed estende la disciplina introdotta, relativamente ai ritardi di pagamento per i prodotti alimentari deteriorabili, dall’art. 4 comma 3 (decorrenza degli interessi moratori) del D.Lgs. 9 ottobre 2002 n. 231, in attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (46).

In conclusione di quanto esposto, la disciplina vigente sulla sicurezza alimentare è rinvenibile nel coordinamento tra l’ordinamento europeo e quelli dei singoli Stati membri e tra questi ultimi e la legislazione regionale. La legislazione alimentare può considerarsi completa, in quanto disciplina le azioni degli operatori coinvolti, contestualizza e differenzia, attraverso una normativa generale applicabile agli alimenti ed ai mangimi ed una normativa speciale nei settori in cui è necessaria una tutela dei consumatori più specifica, come l’igiene alimentare, l’uso di pesticidi, di integratori alimentari, di coloranti, di antibiotici e di vitamine, di minerali e sostanze analoghe (47).

 

III. I principi e gli obblighi di sicurezza nella legislazione alimentare dalla gestione del rischio all’obbligo di rintracciabilità

La tutela del consumatore riguarda la prevenzione dei danni derivanti dalla circolazione di alimenti pericolosi per la salute. Tale funzione preventiva è rinvenibile nelle norme che vietano la commercializzazione di alimenti dannosi per chiunque, o per soggetti che richiedono una specifica protezione contro l’assunzione di determinati alimenti (48). Il regolamento n. 178 del 2002 costituisce, secondo quanto disposto dall’art. 1, la base nel settore alimentare di un elevato livello di tutela della salute e degli interessi dei consumatori ed al contempo del funzionamento del mercato interno. A tale stregua, l’analisi del pericolo e dei punti critici del sistema di produzione e di distribuzione dei prodotti alimentari trova una disciplina attraverso le regole tecniche mutuate dal sistema HACCP.

Al riguardo, tale regolamento prevede l’obbligo, in capo ai produttori ed ai distributori dei prodotti alimentari, di immettere sul mercato prodotti conformi ai requisiti di sicurezza predeterminati, quali l’analisi del rischio (art. 6), il principio di precauzione (art. 7), la tutela degli interessi dei consumatori (art. 8), la trasparenza nell’elaborazione della legislazione alimentare (art. 9), l’informazione del consumatore (art. 10), gli obblighi di sicurezza per gli operatori del settore (artt. 11-20), l’istituzione dell’Autorità europea per la sicurezza (artt. 22-49) e le procedure relative alle situazioni di emergenza alimentare (artt. 50-57) (49).

Al riguardo, prima di analizzare tali obblighi di sicurezza, è necessario fare alcune precisazioni relative alla definizione degli alimenti.

In primo luogo, secondo quanto previsto dall’art. 2 del Reg. CE n. 178 del 2002, l’alimento è qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato, destinato ad essere «ingerito» dagli esseri umani. La norma non risolve la questione relativa alle differenti denominazioni previste negli Stati membri. La Corte di Giustizia e parte della dottrina hanno applicato il criterio del mutuo riconoscimento, che attribuisce l’equivalenza alle norme nazionali di produzione e di presentazione dei prodotti alimentari nel commercio intracomunitario (50).

In secondo luogo, occorre distinguere gli alimenti per l’uomo (food) dai medicinali, che secondo la Direttiva 2001/83/CE sono i prodotti ad effetto terapeutico e quelli che, pur non avendo tali effetti, si presentano come tali (51).

Un’altra differenziazione riguarda i mangimi (feed), che secondo l’art. 3, punto 4, sono qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato, destinato alla nutrizione per via orale degli alimenti. La differenza riguarda la definizione di mangime, in cui è prevista la «nutrizione», e di alimento, che prevede l’«ingestione». Tuttavia, parte della dottrina non attribuisce alcuna rilevanza giuridica a tale differenza, in quanto gli alimenti ed i mangimi, comunque, «vengono trattati nello stesso modo e con gli stessi provvedimenti normativi» (52).

In riferimento al profilo soggettivo, la legislazione alimentare prevede degli specifici obblighi, in capo all’operatore professionale, di sicurezza a tutela della salute del consumatore. L’operatore del settore alimentare o dei mangimi è definito dall’art. 3, punti 3 e 6, «la persona fisica o giuridica responsabile di garantire il rispetto delle disposizioni della legislazione nell’impresa alimentare o di mangimi posta sotto il suo controllo». In particolare, i produttori ed i distributori hanno l’obbligo di immettere sul mercato «prodotti sicuri», in osservanza della legislazione alimentare nelle fasi di produzione, trasformazione, trasporto, magazzinaggio, custodia e distribuzione finale (53). Tuttavia, sussistono delle questioni interpretative, in quanto gli obblighi di sicurezza alimentare previsti dai regolamenti n. 178 del 2002, n. 852 del 2004 e n. 853 del 2004 sono differenti per i vari operatori della filiera. In particolare, gli obblighi di sicurezza previsti dagli artt. 14-20 del Reg. CE n. 178 del 2002 si applicano nei limiti delle «rispettive attività» e secondo la «capacità di controllo» delle condizioni di sicurezza del prodotto alimentare. Il contenuto dell’obbligo di conformità si determina secondo i requisiti di cui agli artt. 14 ss. del reg. n. 178 del 2002, agli allegati tecnici del regolamento n. 852 del 2004 (sull’igiene per gli alimenti di origine animale) ed alle normative di settore.

In riferimento ai criteri di individuazione degli alimenti non sicuri sussistono dei dubbi interpretativi in merito all’applicazione nei confronti dell’operatore alimentare. Al riguardo, secondo parte della dottrina, la diligenza richiesta all’operatore privato supera la soglia della prevenzione, per comprendere l’adozione di ogni forma di precauzione. Tale impostazione è criticata da altra parte della dottrina, secondo cui i criteri previsti dall’art. 14.4 del regolamento n. 178/2002 costituiscono la cornice di riferimento per le autorità pubbliche incaricate di monitorare e di controllare i rischi, anche emergenti, legati al consumo alimentare.

In riferimento agli obblighi di sicurezza, l’analisi del rischio rappresenta un principio generale della legislazione alimentare a tutela della salute del consumatore. In particolare, l’art. 6.1 prevede che «la legislazione alimentare si basa sull’analisi del rischio», quale funzione di decision-making, che si articola in tre momenti, assegnati a soggetti diversi. In riferimento all’analisi del rischio il legislatore comunitario distingue tra la valutazione del rischio, basata su elementi scientifici e che deve essere «svolta in modo indipendente, obiettivo e trasparente» (comma 2), e la gestione del rischio, che deve tenere conto dei risultati della valutazione del rischio e in modo particolare dei pareri dell’Autorità della sicurezza alimentare e di «altri aspetti, se pertinenti», e del principio di precauzione (comma 3) (54).

A tale stregua, occorre comprendere quando un alimento costituisce un rischio per la salute dei consumatori. Il regolamento n. 178/2002 CE definisce il rischio «Funzione della probabilità e della gravità di un effetto nocivo per la salute conseguente alla presenza di un pericolo». Inoltre, il pericolo o elemento di pericolo è definito «l’agente biologico chimico o fisico contenuto in un alimento o mangime o condizione in cui un alimento o mangime si trova in grado di provocare un effetto nocivo sulla salute» (art. 3 nn. 9-14). Gli alimenti sono considerati a rischio quando sono dannosi per la salute o inadatti al consumo umano secondo «i probabili effetti immediati e/o a breve termine e/o a lungo termine dell’alimento sulla salute di una persona che lo consuma e su quella dei discendenti» e «i probabili effetti tossici o cumulativi di un alimento» (art. 14, paragrafo 2, punti 2 e 4, lett. a) e b)). Al riguardo, l’art. 14.1 del regolamento n. 178 del 2002 stabilisce che «gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato».

In particolare, la nozione di «alimento a rischio» è prevista dal regolamento nelle categorie degli «alimenti dannosi per la salute» (art. 14.4) e degli alimenti «inadatti al consumo umano» (art. 14.5) (55). La sicurezza dell’alimento si valuta secondo le condizioni d’uso normali dello stesso in ogni fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione e secondo le informazioni rese in etichetta o altre informazioni relative agli effetti nocivi derivanti dall’alimento (56).

Dopo tali precisazioni, è necessario esaminare l’iter di individuazione del rischio.

Nella prima fase il rischio è individuato attraverso la valutazione della probabilità e della gravità dell’effetto nocivo dell’alimento o del mangime sulla salute, derivante dalla presenza di un pericolo (art. 3, punto 9). Tale individuazione del risk assessment è effettuata attraverso una procedura su base scientifica, che valuta l’esposizione al pericolo ed al rischio, la probabilità e la gravità dell’effetto nocivo per la salute (art. 3, punto 11). Tale controllo è effettuato dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare, ove convergono le comunicazioni degli Stati membri o delle Autorità nazionali, dei consumatori, delle imprese alimentari, della comunità accademica e degli interessati alla sicurezza alimentare (art. 3, punto 13) (57).

A seguito della valutazione del rischio, la Commissione Europea gestisce il rischio (risk management) secondo il principio di precauzione (art. 7) e la valutazione delle informazioni disponibili e dei possibili effetti dannosi alla salute, attraverso l’analisi tra le alternative d’intervento e l’adozione di misure restrittive e di appropriate scelte preventive e di controllo a tutela della salute (art. 3, punto 12) (58).

Infine, vi è la fase della comunicazione del rischio, attraverso lo scambio di informazioni e di pareri tra i responsabili della gestione, i consumatori, le imprese alimentari ed altri interessati, relativi agli elementi di pericolo ed ai rischi rilevati. Al fine di favorire la coordinazione tra le imprese e le autorità competenti degli Stati membri, il sistema di sorveglianza «Rapex» favorisce l’intervento delle autorità di controllo in situazioni urgenti di rischio per la salute del consumatore (59). Le comunicazioni rapide costituiscono un ulteriore strumento di valutazione di eventuali rischi. Al fine di notificare in tempo reale i rischi diretti o indiretti per la salute derivanti dal consumo di alimenti o mangimi è stato istituito il sistema rapido di allerta comunitario (RASFF), una forma di rete a cui partecipano la Commissione Europea, l’EFSA (Autorità per la sicurezza alimentare) e gli Stati membri dell’Unione. Il sistema di allerta comunitario ha fondamento nella Direttiva 92/59/CEE del Consiglio europeo recepita con il decreto legislativo n. 115/1995, relativa alla sicurezza generale dei prodotti, e nel regolamento CE 178/2002, che stabilisce i principi ed i requisiti della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa le procedure relative alla sicurezza alimentare (60). Il flusso delle «allerte» deve essere completo e tempestivo, attraverso notifiche comunicate e condivise tra gli Stati membri in rete ed in tempo reale. L’attività del sistema di allerta prevede il ritiro di prodotti pericolosi per la salute umana o animale (61).

A livello nazionale, il Ministero della salute svolge delle funzioni di programmazione, di indirizzo e di coordinamento nell’ambito del controllo degli alimenti. Al riguardo è effettuata una relazione annuale, ad oggetto le informazioni relative alle attività svolte nell’ambito del Piano Nazionale Integrato dei Controlli, in applicazione del Regolamento (CE) 882/2004, ed i controlli a tutela della salute dei consumatori, del benessere degli animali e delle piante ed a garanzia delle pratiche commerciali leali per i mangimi e gli alimenti (62).

Il regolamento n. 178 del 2002 prevede ulteriori obblighi di sicurezza, quali l’obbligo di «rintracciabilità» (63), introdotto, per il comparto delle carni bovine, a seguito della «crisi della mucca pazza» (regolamento n. 1760/2000/CE). Il regolamento n. 178/2002 ha previsto tale obbligo della rintracciabilità per gli operatori professionali del settore, come strumento di sicurezza alimentare, al fine di procedere a «ritiri» mirati ad informare i consumatori o i responsabili dei controlli. Secondo l’approccio «un anello a monte e un anello a valle» (one step back, one step forward) è necessaria la predisposizione dei sistemi e delle procedure di controllo al fine di individuare «chi abbia loro fornito cosa» e le imprese a cui sono stati forniti i prodotti (64). La rintracciabilità prevista nel regolamento n. 178/2002 riguarda il flusso di materie prime e le componenti all’interno del processo produttivo di una singola impresa alimentare (65). A tale stregua, questa normativa agevola l’individuazione dell’operatore tenuto all’osservanza delle disposizioni regolamentari a tutela della sicurezza del prodotto alimentare e dell’obbligo di comunicare l’eventuale situazione di pericolo ai consumatori o a chi spetta di ritirarlo dal mercato. In particolare, il sistema di rintracciabilità previsto dalla normativa in esame consente di individuare il responsabile del pericolo prodotto e del danno cagionato (66) e, in riferimento agli alimenti importati dai Paesi terzi, prevede la possibilità di adottare, a tutela della salute pubblica, della salute degli animali e dell’ambiente, appropriate misure d’emergenza a livello dell’Unione per gli alimenti e i mangimi importati da un Paese terzo, qualora il rischio non possa essere adeguatamente affrontato con misure adottate dagli Stati membri (67).

Da quanto esposto emerge l’intento del legislatore di coordinare gli interessi dei produttori di alimenti con l’interesse dei consumatori ad un’alimentazione sana e sicura, attraverso la disciplina delle singole fasi di produzione e dei comportamenti dei singoli operatori in tale settore e la previsione di meccanismi di controllo e di una rete d’informazione in grado di coinvolgere i singoli Stati membri nell’attuazione di tale sicurezza alimentare.

 

IV. La tutela del consumatore: il risarcimento dei danni per la circolazione di prodotti alimentari insicuri

Dopo aver esposto le forme di tutela preventiva del consumatore, nel presente paragrafo sarà analizzata la tutela risarcitoria per i danni relativi all’immissione nel mercato di prodotti alimentari insicuri (68). A tale stregua, occorre analizzare la disciplina nazionale ed europea.

Al riguardo, giova effettuare le seguenti distinzioni.

Sotto il profilo soggettivo ed in particolare riferimento alla posizione di garanzia gravante sull’operatore professionale, la legislazione alimentare prevede degli specifici obblighi di sicurezza del prodotto, a tutela della salute del consumatore. Al riguardo, i produttori e i distributori di alimenti hanno un obbligo di conformità dei prodotti, ossia di immettere sul mercato solo «prodotti sicuri», attraverso l’osservanza della legislazione alimentare nelle fasi di produzione, trasformazione, trasporto, magazzinaggio, custodia e distribuzione finale (69). Il contenuto dell’obbligo di conformità si determina in base ai requisiti di cui all’art. 14 ss. del regolamento sulla sicurezza alimentare n. 178 del 2002, agli allegati tecnici del regolamento n. 852 del 2004 (sull’igiene per gli alimenti di origine animale) e alle normative di settore. La sicurezza dell’alimento si valuta secondo le condizioni d’uso normali dell’alimento da parte del consumatore in ogni fase, dalla produzione alla distribuzione, e secondo le informazioni rese accessibili al consumatore sugli effetti nocivi per la salute derivanti da un alimento (70).

In base all’art. 17 del regolamento n. 178 del 2002, gli operatori del settore alimentare e dei mangimi devono «(…) garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti (e i mangimi) soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alla loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione» e «verificare che tali disposizioni siano soddisfatte». L’art. 21 del regolamento n. 178 prevede che le disposizioni sui requisiti della legislazione alimentare del Capo II «si applicano salvo il disposto della direttiva 85/374/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1985, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi».

Alla stregua degli esposti articoli si evidenzia la differenziazione tra la responsabilità dell’operatore alimentare per danni arrecati a terzi nell’esercizio dell’impresa e la responsabilità per l’immissione in commercio di prodotti alimentari difettosi.

Si configura una responsabilità d’impresa per l’inosservanza delle norme relative al controllo e per le carenze di analisi dei pericoli e delle criticità nella produzione e distribuzione degli alimenti. Inoltre, tale responsabilità sussiste per l’inosservanza dell’obbligo di garantire la rintracciabilità, che consente di individuare la fase in cui si è verificato il difetto, e dell’obbligo di provvedere al ritiro dell’alimento insicuro dal mercato (71).

La responsabilità del produttore può derivare dall’immissione sul mercato di beni o prodotti difettosi (72). L’art. 102, sulla sicurezza dei prodotti, del codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206), al comma 6 prevede che «Le disposizioni del presente titolo non si applicano ai prodotti alimentari di cui al regolamento (CE) n. 178/2002, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2002». Tuttavia, l’art. 21 del regolamento n. 178 del 2002 stabilisce che gli artt. 4-20 si applicano «salvo il disposto» della direttiva n. 85/374/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1985, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi (modificata dalla direttiva 99/34/CEE e recepita dal codice del consumo). La responsabilità per danno da prodotti difettosi è disciplinata nel codice del consumo dagli articoli da 114 a 127 (73). In particolare, ai sensi dell’art. 114, il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto. Secondo tale norma si configura una responsabilità del produttore a prescindere dall’accertamento dell’elemento soggettivo. A tale stregua, in un’azione giudiziaria il danneggiato ha l’onere probatorio relativo al danno, al difetto del prodotto ed al nesso causale (art. 120), e non al dolo o alla colpa del produttore (74).

In riferimento al profilo oggettivo di applicazione della normativa sopra esposta, si rileva che l’art. 3, comma 1, lett. e), del D.Lgs. n. 206 del 2005 definisce prodotto «qualsiasi prodotto destinato al consumatore» o «suscettibile, in condizioni ragionevolmente prevedibili, di essere utilizzato dal consumatore», a prescindere dalle modalità mediante le quali sia reso disponibile al consumatore. Inoltre, l’art. 115 individua tale prodotto in «ogni bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile». Secondo un’interpretazione a contrario, sostenuta da parte della dottrina, dell’art. 117, comma 1, del decreto, i prodotti agricoli, compresi quelli del suolo, della caccia e della pesca, devono presentare «la sicurezza che ci si può legittimamente attendere, tenuto conto di tutte le circostanze» (75).

Un profilo problematico attiene ai rapporti tra la disciplina sulla sicurezza alimentare e quella sul danno da prodotto difettoso. Secondo l’art. 117 un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere per: a) il modo in cui esso è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche, le istruzioni e le avvertenze fornite; b) l’uso al quale può essere ragionevolmente destinato ed i comportamenti prevedibili; c) il tempo in cui esso è stato messo in circolazione. Inoltre, un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza degli altri esemplari appartenenti alla medesima serie.

Tuttavia, la disposizione esposta presenta il seguente profilo problematico, in quanto non distingue quando la pericolosità di un alimento o la sua non conformità ai requisiti di sicurezza può assumere rilevanza sia come «difetto», che come assenza della «sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto delle circostanze». In particolare, occorre comprendere se la valutazione della responsabilità per danno da prodotto difettoso possa essere effettuata in modo autonomo rispetto a quella sull’osservanza, da parte dell’operatore professionale, della legislazione sulla sicurezza alimentare. Invero, la previsione e la predisposizione, da parte dell’operatore, delle misure relative alla sicurezza alimentare non elimina i margini per la configurabilità di un’autonoma responsabilità da prodotto difettoso.

Al riguardo, giova rilevare che, secondo il regolamento n. 178 del 2002, gli obblighi di sicurezza si individuano secondo la «capacità di controllo del rischio» e le «rispettive attività» degli operatori della filiera, mentre, nell’ambito della responsabilità da prodotto difettoso, l’operatore alimentare può rispondere dei danni causati al consumatore finale a prescindere dal momento di ingresso del prodotto insicuro nel circuito distributivo ed in assenza di un contatto con il consumatore (76).

Un profilo correlato riguarda i materiali e gli oggetti utilizzati per il confezionamento degli alimenti. Al riguardo, il regolamento (UE) n. 10/2011 della Commissione, del 14 gennaio 2011, individua i materiali e gli oggetti di materia plastica destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari ed elenca le sostanze di partenza e gli additivi che possono essere utilizzati nella fabbricazione di tali materiali (77). Il Regolamento n. 1282/2011 della Commissione del 28 novembre 2011 ha modificato il regolamento (UE) n. 10/2011 della Commissione riguardante i materiali e gli oggetti di materia plastica destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha espresso una valutazione scientifica favorevole in relazione ad altre sostanze da aggiungere all’attuale elenco. A tale stregua, la Commissione ha ritenuto di rettificare l’utilizzazione ed aggiornare in modo conforme il numero di riferimento nell’allegato I del regolamento (UE) n. 10/2011 (78). Inoltre, l’art. 21 del regolamento n. 178 del 2002 qualifica come «difetto» un alimento non conforme alle prescrizioni della legislazione alimentare. In riferimento a tale profilo, l’art. 17.1 del regolamento n. 178/2002 prevede, in capo agli operatori del settore alimentare e dei mangimi, l’obbligo di garantire che gli alimenti e i mangimi soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare nelle singole fasi di produzione, di trasformazione e di distribuzione. Inoltre, l’art. 19.2 del regolamento n. 178/2002 dispone che gli operatori alimentari responsabili di attività di vendita al dettaglio o distribuzione devono, nei limiti delle rispettive attività, procedere al ritiro dal mercato dei prodotti non conformi ai requisiti di sicurezza alimentare e contribuire a garantire la sicurezza degli alimenti attraverso le informazioni necessarie ai fini della rintracciabilità e l’attuazione di forme di collaborazione fra i responsabili della produzione, della trasformazione e della lavorazione e le autorità competenti (79).

Sulla base di tali riferimenti normativi, la responsabilità derivante da prodotti difettosi è configurabile per l’inosservanza della legislazione alimentare e per una carente analisi delle criticità nella produzione e distribuzione del prodotto alimentare.

Un ulteriore profilo critico riguarda l’antinomia tra il principio di precauzione previsto dall’art. 7 del reg. n. 178 del 2002 e l’esonero da responsabilità del produttore per i rischi di sviluppo, rinvenibili allorquando «lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso» (art. 118, lett. e), del codice del consumo).

In linea generale, tale esonero da responsabilità risponde alla ratio del legislatore di tutelare il produttore contro rischi non prevedibili, né conoscibili secondo i dati scientifici e tecnici al momento dell’immissione del prodotto nel mercato.

A livello dottrinario è emerso un dibattito relativo all’individuazione delle situazioni di esclusione di responsabilità del produttore (80). Al riguardo, parte della dottrina ha interpretato in modo restrittivo il predetto art. 118 lett. e), in quanto ha escluso una responsabilità da prodotto difettoso quando tali rischi non possono essere individuati prima della commercializzazione del prodotto sulla base dello stato più avanzato delle conoscenze scientifiche e tecniche (81).

Tuttavia tale impostazione potrebbe determinare un’applicazione in contrasto con il principio di precauzione, caratterizzato da margini di applicazione in situazioni di incertezza scientifica. A tale stregua, un diverso orientamento dottrinario valuta in modo differente lo «stato delle conoscenze scientifiche e tecniche», previste dal succitato art. 118 lett. e) del codice del consumo, secondo i risultati di studi teorici e le posizioni espresse dalla dottrina anche minoritaria, purché siano supportate da una motivazione. Quest’ultima interpretazione estensiva delle ipotesi di responsabilità da prodotto difettoso intende tutelare in modo primario «(…) il diritto alla salute e all’integrità psico-fisica minacciati da incerte situazioni di pericolo» rispetto agli interessi economici espressi dalle imprese in tale settore (82). Secondo tale impostazione le misure precauzionali esposte sono espressione di una legislazione precauzionalmente orientata e dell’attenzione del legislatore ad apprestare una tutela preventiva per il consumatore in ogni fase, dalla produzione alla distribuzione.

Avv. Maria Carmen Agnello

Dottore di ricerca in Diritto Privato dell’Economia

 

 

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(1) In Enc. Treccani il termine sicurezza indica «Il fatto di essere sicuro, come condizione che rende e fa sentire di essere esente da pericoli, o che dà la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli». Secondo la definizione dell’Enc. Treccani, la sicurezza alimentare è «l’insieme delle misure amministrative, legali, tecniche e degli apparati di controllo che mirano ad assicurare alla collettività il cosiddetto cibo sicuro (ovvero a minimo o nullo rischio microbiologico, chimico, radioattivo, ossia tossicologicamente accettabile)». La risoluzione del Parlamento Europeo del 18 gennaio 2011, sul riconoscimento dell’agricoltura come settore strategico nel contesto della sicurezza alimentare, al considerando n. 4 definisce la sicurezza alimentare «un diritto fondamentale, che si realizza quando tutti dispongono, in qualsiasi momento, di un accesso fisico ed economico ad un’alimentazione adeguata, sana (sotto il profilo della salute) e nutriente, per poter soddisfare il proprio fabbisogno nutrizionale e le proprie preferenze alimentari per una vita attiva e sana». Nella risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2011, cit., lett. L), si rileva «che la sicurezza alimentare non comporta soltanto la disponibilità delle risorse alimentari, ma comprende anche, secondo la FAO, il diritto al cibo e l’accesso ad un’alimentazione sana per tutti, e che, diventando sempre più competitiva, l’Europa può contribuire alla sicurezza alimentare globale».

(2) Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, 2010, parte I, cap. 2, pagg. 65-66, a cura di Alberto Oddenino, secondo cui «La portata della globalizzazione travalica la sfera economico-commerciale e investe gli assetti complessivi di quella che, sempre più, appare come società del rischio “globale”». In riferimento a tale profilo si veda R. Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo, Bari, Laterza, 2002. Secondo la risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2011, cit., «la sfida è quella di produrre “di più con meno”, ponendo l’accento sulla produzione sostenibile, a causa della pressione sulle risorse naturali (…)». Si v. C. Malagoli, Sicurezza alimentare, in Aggiornamenti sociali, 2004, n. 5, pag. 58, il quale rileva che «la sete di ottenere in fretta il massimo guadagno con i minimi costi, anche attraverso l’inganno e il disinteresse per i possibili danni all’altrui salute, è sempre stata la molla che ha motivato tali comportamenti». L’autore rileva che «il profitto non può essere considerato il fine ultimo di ogni nostra azione, ma deve essere visto come strumento per migliorare il benessere della società. Solo in questo modo potremmo introdurre innovazioni in grado di aumentare la sicurezza alimentare, operando per il benessere delle persone e della collettività».

(3) Secondo C. Malagoli, cit., pag. 59, l’infezione dell’encefalopatia bovina deriva dall’utilizzazione, come alimento per gli animali, di una proteina derivante dalla trasformazione di materiale di scarto. L’autore rileva che nessuno ha previsto «la possibile trasmissione ad altri animali delle stesse malattie da cui erano affetti quelli dalle cui carcasse si producevano le farine proteiniche». Nessuno, infine, aveva esaminato la possibilità di contagio umano. Inoltre, è rilevabile l’allevamento di animali con ormoni estrogeni, per accelerare l’accrescimento muscolare. L’autore sopra cit. rileva che «queste carni, nonostante il parere contrario di alcuni scienziati, secondo gli organismi internazionali che vigilano sul commercio mondiale, sono salubri come quelle non trattate, in quanto non ci sono sufficienti prove scientifiche che dimostrino il contrario. Pertanto, nessun Paese può vietarne l’importazione, pena ritorsioni commerciali. (…). I Paesi dell’UE si trovano allora in stato di violazione delle regole del commercio internazionale, poiché non intendono aprire le loro frontiere all’importazione di carni agli ormoni, finché non si sarà appurata la loro rispondenza ai criteri di sicurezza alimentare». La tecnica della clonazione animale consiste nella creazione di una copia genetica di un animale attraverso la sostituzione del nucleo di un ovocita non fecondato con il nucleo di una cellula corporea (somatica), prelevata da un animale, in modo da ottenere un embrione. Inoltre, è diffuso l’uso di sostanze chimiche nell’allevamento animale e nella coltivazione di piante e di organismi geneticamente modificati. L’OGM è un organismo in cui il materiale genetico è modificato con l’accoppiamento e la ricombinazione genetica naturale per ottenere specifiche caratteristiche (si applica al mais, alla soia ed al cotone, ed altre varietà di OGM sono in fase sperimentale). Infine, sono state avviate altre forme di biotecnologie sostenibili, i MAS (marker assisted selection), vale a dire la selezione delle migliori caratteristiche delle piante con gli incroci ripetuti, al fine di accelerare i tempi normali. Tale tecnica non ha frammenti di DNA estranei, sperimentata in altri alimenti (riso, orzo, fagioli, grano, miglio, soia, mais e pomodoro).

(4) Per un’evoluzione storica si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di R. Ferrara, 2010, parte I, cap. 1, pag. 13, secondo cui il rischio sanitario «(…) è un concetto piuttosto risalente, secondo quanto dimostra la legislazione ottocentesca in materia di igiene degli abitati e quella che veniva via via assunta nel campo della salubrità alimentare. L’obiettivo non era, ovviamente, quello di promuovere il diritto alla salute dei cittadini, o comunque si trattava di un effetto del tutto eventuale e indiretto, in quanto scopo primario delle politiche pubbliche (…) in questo campo era quello di contenere il contagio (…)». L’autore, in riferimento al momento attuale, afferma che «(…) il rischio, in quanto principio regolatore dell’ordine caotico delle società contemporanee, diviene un concetto rilevante sia per l’economia che per il diritto e, soprattutto, consente di intercettare un fenomeno tanto rilevante e pervasivo quanto generale, ossia l’ingresso della tecnica nel mondo della regolazione giuridica e della gestione degli interessi rilevanti per il diritto». Sugli aspetti relativi alla gestione del rischio a tutela dell’ambiente, si v. Ferrara, La protezione dell’ambiente e il procedimento amministrativo nella «società del rischio», in Dir. Soc., 2006, 507 ss. Nell’ambito della sociologia, secondo N. Luhmann, in Sociologia del rischio, Milano, 1996, p. 32, il rischio ed il pericolo si diversificano riguardo ai danni futuri. «Ci sono allora due possibilità: o l’eventuale danno viene visto come conseguenza della decisione, (…) e si parla di rischio della decisione; oppure si pensa che l’eventuale danno sia dovuto a fattori esterni e viene quindi attribuito all’ambiente: parliamo allora di pericolo». Si v. il Piano Sanitario Nazionale anno 2011-2013, par. 2.5, secondo cui «La ricerca e sviluppo non può prescindere dalla valutazione del rischio e sarà necessaria una stretta collaborazione per assicurare l’utilizzo dei nuovi materiali in condizioni di assoluta sicurezza per il cittadino».

(5) Si pensi alla coltivazione di vegetali o all’allevamento di animali in zone inquinate o coltivate con sostanze chimiche. I contaminanti sono controllati con un flusso informativo di raccolta ed elaborazione dei risultati trasmessi dalle Regioni e dalle Province. In applicazione delle Raccomandazioni della Commissione Europea (2010/161/UE, 2010/307/UE e 2010/133/UE) si svolgono i monitoraggi pluriennali, per rilevare la presenza di sostanze utilizzate in campo industriale o la presenza di contaminanti. Un’altra questione riguarda la qualità e la salubrità delle acque destinate al consumo, disciplinate dalla direttiva 98/83/CE, recepita con il D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 31. Quest’ultimo pone in capo allo Stato, alle Regioni ed ai Comuni, degli obblighi precisi, al fine di ottenere l’autorizzazione a derogare per periodi di tempo determinati ai parametri massimi di arsenico consentito nell’acqua potabile. Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, con sent. n. 664 del 2012, ha condannato i Ministeri della Salute e dell’Ambiente a risarcire gli utenti dell’acqua delle Regioni Lazio, Toscana, Trentino Alto Adige, Lombardia e Umbria. Al riguardo, è stato accertato che l’acqua distribuita in molti Comuni delle suddette Regioni conteneva una percentuale di arsenico superiore ai limiti di legge. In particolare, il T.A.R. adito ha rilevato che «Il fatto illecito costituito dall’esposizione degli utenti del servizio idrico ad un fattore di rischio (l’arsenico disciolto in acqua oltre i limiti consentiti in deroga dall’Unione Europea), almeno in parte riconducibile, per entità e tempi di esposizione, alla violazione delle regole di buona amministrazione, determina un danno non patrimoniale complessivamente risarcibile, a titolo di danno biologico, morale ed esistenziale, per l’aumento di probabilità di contrarre gravi infermità in futuro e per lo stress psico-fisico e l’alterazione delle abitudini di vita personali e familiari conseguenti alla ritardata ed incompleta informazione del rischio sanitario».

(6) La risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2011, cit., afferma al considerando n. 5 «che l’UE ha il dovere di nutrire i suoi cittadini e che il mantenimento dell’attività agricola nell’UE è fondamentale a tale riguardo; richiama l’attenzione sul fatto che la diminuzione dei redditi agricoli nell’UE, dovuta all’aumento dei costi di produzione e alla volatilità dei prezzi, influisce negativamente sulla possibilità per gli agricoltori di mantenere la produzione; sottolinea i costi che gli agricoltori europei devono sostenere per poter rispettare gli standard più elevati del pianeta in materia di sicurezza alimentare, ambiente, benessere degli animali e lavoro; rileva la necessità di compensare gli agricoltori per i costi aggiuntivi e per la fornitura di beni pubblici alla società». Nella riunione del Comitato per la sicurezza alimentare mondiale della FAO, l’UE ha evidenziato la volatilità dei prezzi ed alcuni esperti hanno rilevato le cause ed i rimedi contro tali fluttuazioni. In riferimento a tali aspetti critici, la risoluzione citata ha rilevato che «la produzione alimentare mondiale può essere periodicamente compromessa da una serie di fattori, tra cui l’impatto di parassiti e malattie, la disponibilità di risorse naturali e le calamità naturali, (…)», e che «i cambiamenti climatici provocheranno un aumento della frequenza di tali calamità naturali (…)». Inoltre, si evidenzia che «per i membri più poveri della società l’insicurezza alimentare è stata aggravata dagli effetti della crisi economica finanziaria mondiale (…)». A livello europeo sono individuabili altri aspetti critici, quali l’accessibilità nei confronti di soggetti appartenenti a classi sociali deboli e gli sprechi alimentari. La risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2011, cit., «riconosce che garantire un adeguato approvvigionamento di cibo è una componente essenziale della sicurezza alimentare, ma riconosce altresì che l’accesso al cibo e l’accessibilità economica dei prodotti alimentari richiedono che si dedichi attenzione ad assicurare un livello di vita soddisfacente».

(7) In riferimento alla produzione degli alimenti, occorre controllare l’osservanza degli standard richiesti per le caratteristiche genetiche del prodotto alimentare e l’uso di sostanze chimiche (quali coloranti azoici ed ormoni). Si rileva il ruolo sostenuto da alcune aziende di non vendere cibi provenienti da animali alimentati forzatamente e pesce di specie minacciate o in via d’estinzione (quali il salmone). Per altre informazioni si v. www.worldwildlife.org/salmondialogue.

(8) Sul ruolo delle lobbies nelle decisioni politiche si v. L. Petrillo, Le lobbies della democrazia e la democrazia delle lobbies, in www.ildirittoamministrativo.it: «il problema non è il decisore pubblico che si lascia influenzare dalle lobbies. Le questioni, invece, sono due, ovvero, da un lato, come tali interessi entrano nel processo decisionale, e, dall’altro, quali interessi entrano in gioco. La necessità che deve porsi il legislatore è quella di assicurare: 1) che tutti gli interessi abbiano pari dignità e, dunque, che tutti gli interessi possano entrare in gioco; 2) che il decisore pubblico decida quale interesse preferire secondo meccanismi di massima trasparenza e responsabilità».

(9) Si v. sent. della Corte di Giustizia (ottava sez.) del 6 ottobre 2011, che ha affrontato la questione relativa all’installazione di un lavabo nelle toilette del personale nel locale gestito, ove sono commercializzati prodotti alimentari. Al riguardo l’art. 4 del regolamento n. 852/2004, intitolato «Requisiti generali e specifici in materia d’igiene», prevede, al n. 2: «Gli operatori del settore alimentare che eseguono qualsivoglia fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione di alimenti successiva a quelle di cui al paragrafo 1, rispettano i requisiti generali in materia d’igiene di cui all’allegato II (…)». Nell’allegato II del regolamento, intitolato «Requisiti generali in materia di igiene applicabili a tutti gli operatori del settore alimentare (diversi da quelli di cui all’allegato I)», il capitolo I di tale allegato, intitolato «Requisiti generali applicabili alle strutture destinate agli alimenti (diversi da quelli indicati nel capitolo III)», prevede al punto 4: «Deve essere disponibile un sufficiente numero di lavabi, adeguatamente collocati e segnalati per lavarsi le mani. I lavabi devono disporre di acqua corrente fredda e calda, materiale per lavarsi le mani e un sistema igienico di asciugatura. Ove necessario, gli impianti per il lavaggio degli alimenti devono essere separati da quelli per il lavaggio delle mani». Tuttavia sussiste un contrasto con quanto previsto dall’art. 39, n. 1, punto 13, della legge in materia di sicurezza dei prodotti alimentari e di tutela dei consumatori (Lebensmittelsicherheits und Verbraucherschutzgesetz, BGBl. I, 13/2006), qualora vengano accertate violazioni delle disposizioni applicabili in materia di prodotti alimentari: «il Landeshauptmann adotta le misure necessarie, in base al tipo di violazione ed in osservanza del principio di proporzionalità, ai fini dell’eliminazione dei difetti e della diminuzione dei rischi, stabilendo, laddove necessario, un termine adeguato nonché i requisiti o le condizioni necessarie (…)». La Corte di Giustizia risolve il contrasto, interpretando l’allegato II, capitolo I, punto 4, del regolamento, nel senso che «tale disposizione non richiede che i lavabi in essa previsti debbano essere destinati esclusivamente al lavaggio delle mani, né che il rubinetto e il sistema di asciugatura debbano poter essere utilizzati senza contatto con le mani».

(10) Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di R. Ferrara, 2010, parte I, cap. 1, pag. 18, secondo cui il diritto alla salute nella «società del rischio» ha assunto nuovi aspetti. In particolare, secondo l’autore, «Dalla salute come problema della sicurezza sanitaria (ossia, dall’igiene pubblica come emergenza di ordine pubblico interno ed internazionale) è (…) breve il passaggio alla salute come situazione giuridica soggettiva della persona, ai sensi dell’art. 32 della Cost.». Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di R. Ferrara, 2010, parte I, cap. 1, pag. 21: «La salute — e la sua tutela — non si risolve ed esaurisce (…) nella promozione delle posizioni soggettive di vantaggio a carattere individuale ma postula altresì, in sintonia con la tradizione “interventista” dello Stato di diritto, la mobilitazione delle opportune e necessarie politiche di ordine pubblico interno (ed internazionale), capaci di agire positivamente sul versante della tutela delle situazioni di vantaggio a struttura metaindividuale, ossia collettive». In particolare, l’autore rileva il passaggio dal diritto alla salute concepito «(…) come peculiare e non rinunciabile condizione di benessere dell’individuo» ad una «piena realizzazione della personalità dell’uomo e, infine (last but not least), come diritto ad un ambiente salubre». Sulla questione si v. Aicardi, La sanità, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, I, Milano, Giuffrè, 2003, 625 ss. Per gli aspetti storici si v. R. Ferrara in Introduzione al diritto amministrativo. Le pubbliche amministrazioni nell’era della globalizzazione, Roma – Bari, Laterza, 2005.

(11) Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di R. Ferrara, 2010, parte I, cap. 1, pagg. 21 e 22, secondo cui «(…) il diritto alla salute (…) è stato considerato alla stregua di un Giano bifronte, e cioè ora come diritto soggettivo, ora come (mero) interesse legittimo (…) nel quale si manifestano e convivono, secondo un rapporto di integrazione e reciproca osmosi, istanze e pretese individuali, da un lato, e valori ed aspettative obiettivamente rilevanti sul piano collettivo, dall’altro». L’autore rileva che «(…) il diritto alla salute (…) si presenta come una categoria positiva variegata e complessa, bisognosa di un continuous process di aggiornamento interpretativo, in relazione all’evoluzione dei bisogni, delle aspettative (e delle fragilità e delle debolezze) tipici e propri delle società complesse del capitalismo avanzato (…)».

(12) Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di R. Ferrara, 2010, parte I, cap. 1, pagg. 37 e 38, secondo cui «(…) sulla base dell’art. 41, comma 3°, Cost., la libertà economica viene costruita nel nostro disegno costituzionale come una libertà funzionalizzata, e neppure, sotto altro profilo, che il controllo “opportuno” al quale la Costituzione fa riferimento è quello che si manifesta, sempre o principalmente, come controllo amministrativo preventivo, ma certo è che la norma in questione pone imperativamente la necessità (la doverosità) che la libertà sia conformata, ossia sottoposta a controlli di tipo conformativo in vista della soddisfazione di interessi e valori reputati oggettivamente di rango superiore».

(13) Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di R. Ferrara, 2010, parte I, cap. 1, pag. 36: «Le norme costituzionali esistono, infatti, di per se stesse, in quanto formalmente date, ma si materializzano nella loro fisionomia più reale e vivente grazie alle politiche costituzionali la cui elaborazione è rimessa, in primo luogo, all’attività interpretativa della Corte Costituzionale».

(14) In riferimento a tale bilanciamento, si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di R. Ferrara, 2010, cit., pag. 37, che mette a confronto l’art. 32 e l’art. 41 Cost.. In particolare, secondo l’autore, «l’art. 41 Cost. presenta la fisionomia di una norma con un intenso valore programmatico, per il fatto di introdurre e declinare concetti giuridici indeterminati (dall’utilità sociale alla libertà, alla sicurezza e alla dignità della persona, valori in contrasto con i quali la libertà economica non può certamente svolgersi); secondo una diversa angolazione prospettica il terzo ed ultimo comma della norma afferma chiaramente che è la legge a determinare “i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”».

(15) Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di R. Ferrara, 2010, parte I, cap. 1, pag. 38, in cui, a livello esemplificativo di tale bilanciamento, si rileva che la semplificazione amministrativa costituisce «il piano inclinato sul quale le (buone) ragioni del diritto alla salute, anche nella sua proiezione evolutiva dal diritto alla salute, rappresentata dal diritto ad un ambiente salubre, nonché di altre situazioni di vantaggio sensibili, si misurano e si confrontano con le ragioni (anch’esse buone) del fare impresa (…)». A livello europeo, la sentenza dell’11 settembre 2002, in causa T-13/99 Pfizer Animal Health SA/Consiglio della Corte di Giustizia, rileva che «l’analisi costi – benefici costituisce una particolare espressione del principio di proporzionalità» (punto 410), ed afferma l’esattezza dell’analisi costi – benefici effettuata dalla Commissione Europea secondo il principio della prevalenza della salute e dell’ambiente sugli interessi economici.

(16) Si v. G. Corso, Ordine pubblico nel diritto amministrativo, in Digesto, Vol. X, Torino, 1995, p. 442, che nega l’esistenza di una gerarchia tra gli interessi costituzionali. Tra coloro che negano l’esistenza di una tale gerarchia si v. A. Falzea, Gli standard valutativi e la loro applicazione, in Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica. I. Teoria generale del diritto, Milano, p. 399: «una società complessa, pluralistica, mobile, lascia uno spazio limitato ad irrigidimenti assiologici persino nei valori apicali, dal che deriva la necessità di rinviare al momento della realizzazione, quando diventa attuale l’adattamento dell’effetto al fatto, l’identificazione della soluzione giuridica del problema posto dal fatto». Inoltre, secondo R. Guastini, Ponderazione. Un’analisi dei conflitti tra principi costituzionali, in Ragion Pratica 26/2006, p. 158, tra i principi in conflitto si può stabilire «una gerarchia assiologia mobile», ossia «una gerarchia che vale per il caso concreto (…)».

(17) Per una ricostruzione storica della tutela del diritto alla salute a livello internazionale, si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di A. Oddenino, 2010, parte I, cap. 2, pagg. 66 e 67. L’autore a pag. 68 rileva che «Il contesto di operatività di tale diritto appare infatti articolato e frastagliato in molti filoni di regolazione, coinvolge una moltitudine di soggetti di natura differente, conduce al necessario contemperamento fra interessi diversi e talora contrapposti, si confronta costantemente con le aporie legate all’imperfetta conoscenza scientifica e con le sfide bioetiche legate allo sviluppo di nuove tecnologie. In questo senso, i profili di regolazione internazionale si confrontano con l’esigenza di una governance complessa e articolata del diritto alla salute, che dia adeguatamente conto della molteplicità di questi elementi e che sappia al contempo riconoscere al medesimo diritto la sua valenza trasversale e pervasiva anche e soprattutto in senso applicativo». Al riguardo, l’art. 25 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo recita: «Ognuno ha il diritto ad uno stile di vita adeguato alla salute propria e della propria famiglia, compresi cibo, (…)». L’autore cit., pag. 72, rileva che «(…) la ricorrenza del richiamo al diritto alla salute in un atto di notevole respiro programmatico (…) conferma la centralità del diritto in esame, che si pone alla confluenza con il godimento di altri diritti (…) quali il diritto all’alimentazione (…)». Inoltre, l’art. 11 della Carta Sociale europea recita che «Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto alla protezione della salute, le Parti s’impegnano ad adottare sia direttamente sia in cooperazione con le organizzazioni pubbliche e private, adeguate misure volte in particolare: ad eliminare per quanto possibile le cause di una salute deficitaria; a prevenire per quanto possibile le malattie epidemiche, endemiche e di altra natura (…)».

(18) Nel 1985 la tecnica legislativa del «nuovo approccio» ha incrementato il processo di armonizzazione della libera circolazione. Tuttavia l’attuazione di tale «nuovo approccio» è stata problematica per la presenza sul mercato di merci non conformi e pericolose. Tale situazione ha determinato delle condizioni di concorrenza non eque per gli operatori economici. Un’ulteriore difficoltà per le autorità nazionali di sorveglianza del mercato è il fatto che le merci non conformi e gli operatori che le forniscono non sono rintracciabili quando le merci sono originarie di Paesi terzi. Inoltre negli Stati membri la vigilanza del mercato non viene sempre svolta con la dovuta coerenza e con il necessario rigore e merci potenzialmente pericolose riescono a circolare. Poiché la vigilanza del mercato viene effettuata principalmente a livello nazionale, vanno migliorati con urgenza il monitoraggio, il coordinamento e lo scambio di informazioni a livello dell’UE, al fine di garantire un livello di sicurezza più uniforme nell’UE. Le prescrizioni legislative riguardanti le merci sono diventate sempre più complicate per gli operatori economici. Divergenze anche lievi possono mettere in difficoltà gli operatori economici che cercano di capire come rispettare le prescrizioni legislative dell’UE. Gli operatori onesti possono essere indotti ad investire notevolmente in settori in realtà inutili, credendo di ottenere in tal modo l’assoluta sicurezza di conformità. Allo stesso tempo, incoerenze ed ambiguità a livello legislativo forniscono ad operatori privi di scrupoli la possibilità di eludere i controlli dell’autorità pubblica. Spesso per le autorità nazionali non è chiaro quali controlli debbano essere eseguiti, oppure come. Di conseguenza gli Stati membri adottano strategie diverse, con il risultato che la vigilanza del mercato non è effettuata con regolarità, criteri operativi e rigore uniformi nell’UE. In tal modo si crea un ambito di concorrenza non equo per gli operatori economici, siano essi fabbricanti o importatori. Sulla base di tali considerazioni, nel 2003 la Commissione ha presentato una comunicazione al Parlamento e al Consiglio sull’attuazione del «nuovo approccio», adottato nel 1985, secondo cui la tecnica legislativa del nuovo approccio deve essere rivista e completata da prescrizioni legislative. Un’iniziativa per l’attuazione del mercato unico è costituita dal «pacchetto merci» del 9 luglio 2008, che ha espresso il principio del riconoscimento reciproco e della vigilanza del mercato. Tale misura ha perseguito l’obiettivo di promuovere la libera circolazione di merci attraverso una legislazione sulla sicurezza dei prodotti, un incremento della tutela del consumatore e la creazione di condizioni di concorrenza più eque per gli operatori economici. In seguito, è stata elaborata «Europa 2020», una strategia finalizzata ad un’economia di mercato efficiente, sostenibile ed inclusiva per il XXI secolo. Al riguardo, l’Unione Europea, al fine di raggiungere un elevato livello di sicurezza e di qualità degli alimenti, ha sostenuto il settore agricolo. In particolare, il considerando n. 43 della risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2011, cit., ribadisce «l’importanza della promozione della formazione professionale, dell’accesso all’istruzione, della divulgazione della conoscenza e dello scambio di migliori prassi nel settore dell’agricoltura; (…) la necessità di un approccio coordinato tra la PAC e le altre politiche, al fine di agevolare l’accesso alla ricerca e all’innovazione in agricoltura; (…)». Sull’accreditamento degli organismi di valutazione della conformità nonché per una strategia generale di vigilanza del mercato per le merci, ai sensi dell’art. 3 del TUE versione consolidata (ex articolo 2 del TUE): «L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico». Sulla disciplina della sicurezza alimentare si v. S. Cassese, La nuova disciplina alimentare europea, in Lo spazio giuridico globale, Bari, 2003, pp. 113 e ss.

(19) Secondo l’art. 4, comma II, del TUE l’Unione ha una competenza concorrente con quella degli Stati membri nei settori del mercato interno, della protezione dei consumatori e per i problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel Trattato. Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di A. Oddenino, 2010, parte I, cap. 2, pag. 139, secondo cui «Si tratta del ricorso ad un modello di governance basato sul cosiddetto metodo aperto di coordinamento, che ha il pregio di poter prescindere da una vera e propria delega di competenza sanitaria dagli Stati membri all’Unione e che ricorda (…) la complessa azione a tutela della salute che si è descritta sul piano internazionale. Un’azione che è il frutto dell’operatività di soggetti differenti, che perseguono logiche di enunciazione, applicazione e promozione differenti e complementari e che fanno uso di strumenti di natura diversa, ma prevalentemente caratterizzati dalla non piena vincolatività giuridica». Secondo l’autore, nel metodo aperto di coordinamento, gli Stati si relazionano «con la mediazione indispensabile dell’Unione più uti singuli che uti universi nel contribuire all’elaborazione di una complessiva e complessa governance del diritto alla salute». In ambito internazionale, secondo l’autore, cit., a pag. 143, tale ruolo è svolto dall’OMS e nella governance internazionale il diritto alla salute è «promosso progressivamente, con una dinamica di crescita che postula l’efficace dialogo con gli Stati e l’orientamento delle loro scelte». In tali settori, la normativa europea ha seguito gli sviluppi dell’Organizzazione mondiale del commercio e del Codex Alimentarius, che hanno perseguito il fine di assicurare la libera circolazione di merci, persone, servizi, capitali e il maggiore livello di tutela della salute delle persone.

(20) Si v. A. Oddenino, cit., il quale rileva che «la competenza dell’Unione europea in materia di salute umana si presenta come subalterna rispetto all’azione svolta dagli Stati. Il cammino di valorizzazione della stessa (…) non è quindi passato tanto attraverso un potenziamento dell’incisività dell’azione, (…), quanto piuttosto attraverso una crescente sua persuasività, essendo l’elevato livello di protezione della salute previsto come parametro per tutte le politiche e le attività dell’Unione, anche nella sua dimensione esterna».

(21) Secondo quanto previsto dal secondo comma vige la cooperazione tra l’Unione Europea e gli Stati membri con i Paesi terzi e con le organizzazioni internazionali competenti in materia di sanità pubblica. In particolare, il secondo comma dell’art. 168 del TFUE prevede che «La Commissione può prendere, in stretto contatto con gli Stati membri, ogni iniziativa utile a promuovere detto coordinamento, in particolare iniziative finalizzate alla definizione di orientamenti e indicatori, all’organizzazione di scambi delle migliori pratiche e alla preparazione di elementi necessari per il controllo e la valutazione periodici». Tuttavia, il quinto comma dell’art. 168 del TFUE prevede che «Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, possono anche adottare misure di incentivazione per proteggere e migliorare la salute umana, in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera, misure concernenti la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero, …». Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di A. Oddenino, 2010, parte I, cap. 2, pag. 133, secondo cui il comma 5 dell’art. 168 del TFUE «esclude ogni armonizzazione delle disposizioni legislative o regolamentari degli Stati membri, e il comma 7 sancisce che l’azione dell’Unione debba rispettare le responsabilità degli Stati membri per la definizione della loro politica sanitaria (…)». Al riguardo, si v. Unione Europea Trattati, a cura di Nascimbene, Torino, Giappichelli, 2010, che evidenzia le novità, introdotte dal Trattato di Lisbona, rispetto al testo previgente di cui all’art. 152 del Trattato di Nizza, relative alla sorveglianza, all’allarme ed alla lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero.

(22) La decisione 2007/602/CE ha istituito dal 10 ottobre 2007 un «gruppo di dialogo delle parti interessate» nei settori della salute e della tutela dei consumatori, al fine di consigliare la Commissione sulle prassi di consultazione e di adeguamento. Tale gruppo di dialogo ha elaborato un codice di buone pratiche nelle consultazioni per la DG Salute e Consumatori. Inoltre, il gruppo di dialogo ha raggiunto un equilibrio tra i rappresentanti dell’industria e delle organizzazioni non governative nei settori di intervento di competenza della Direzione Generale per la Salute e i Consumatori e ha garantito conoscenze specialistiche e di distribuzione nell’ambito dell’Unione.

(23) L’art. 2 dell’esposto Regolamento prevede l’obiettivo generale «(…) di porre il consumatore informato al centro del mercato interno. Ciò avverrà tramite il contributo dato dal programma alla tutela della salute, della sicurezza e degli interessi economici dei consumatori, nonché alla promozione del loro diritto all’informazione, all’educazione e alla loro organizzazione al fine di tutelare i propri interessi. (…)». L’art. 3 prevede gli obiettivi specifici e gli indicatori, quali «Obiettivo 1 – Sicurezza: rafforzamento e miglioramento della sicurezza dei prodotti mediante un’efficace sorveglianza del mercato in tutta l’Unione. Il conseguimento di tale obiettivo sarà misurato in particolare sulla base dell’attività del sistema di allerta rapida dell’UE per i prodotti di consumo pericolosi (RAPEX). Obiettivo 2 – Educazione e informazione: miglioramento dell’educazione e dell’informazione dei consumatori e loro sensibilizzazione sui propri diritti, sviluppo di evidenze per la politica dei consumatori e interventi a sostegno delle organizzazioni dei consumatori. Obiettivo 3 – Diritti e ricorsi: rafforzamento dei diritti dei consumatori, in particolare tramite iniziative di regolamentazione e il miglioramento dell’accesso a mezzi di ricorso, compresa la risoluzione alternativa delle controversie. Il conseguimento di tale obiettivo sarà misurato in particolare sulla base del ricorso alla risoluzione alternativa delle controversie nella composizione di controversie transnazionali e dell’attività di un sistema di risoluzione on line delle controversie su scala UE. Obiettivo 4 – Tutela dei diritti: promozione della tutela dei diritti dei consumatori mediante il rafforzamento della collaborazione tra gli organismi nazionali competenti e tramite servizi di consulenza ai consumatori. Tale obiettivo sarà misurato in particolare sulla base del livello del flusso di informazioni e della collaborazione in seno alla rete di cooperazione per la tutela dei consumatori e dell’attività dei centri europei dei consumatori». L’art. 7 prevede la partecipazione al programma da parte dei Paesi dell’Associazione europea di libero scambio partecipanti allo Spazio economico europeo, secondo le condizioni previste nell’accordo sullo Spazio economico europeo, dei Paesi terzi, dei Paesi candidati e in via di adesione all’Unione, di potenziali candidati e dei Paesi cui si applica la politica europea di vicinato, conformemente ai principi ed alle condizioni della loro partecipazione ai programmi dell’Unione fissati nei rispettivi accordi quadro, decisioni del Consiglio di associazione o convenzioni simili.

(24) Ai sensi dell’art. 191, secondo comma, del TFUE (ex art. 174 del TCE), «La politica dell’Unione in materia ambientale (…) è fondata sui principi della precauzione (…)». Il principio di precauzione, nato in Germania, è stato accolto in diversi trattati internazionali a tutela dell’ambiente e della salute. Si v. il paragrafo 5.7 dell’Accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS Agreement) dell’OMC che, pur non utilizzando l’espressione «precauzione», prevede che, nel caso di prove scientifiche insufficienti, uno Stato può adottare misure sanitarie o fitosanitarie secondo le informazioni disponibili. In tale situazione, le misure devono essere provvisorie e lo Stato ha l’obbligo di acquisire ulteriori informazioni e di riconsiderare le misure in tempo ragionevole. Il principio di precauzione è previsto dalla normativa comunitaria, secondo diversi significati. Si v. la COM sul ricorso al principio di precauzione oltre la tutela del consumatore, del 2 febbraio 2000, doc. (2000)1, in www.europa.eu, che stabilisce gli orientamenti comuni, relativi all’applicazione del principio di precauzione, secondo cui «Il principio di precauzione permette di reagire rapidamente di fronte a un possibile pericolo per la salute umana, animale o vegetale, ovvero per la protezione dell’ambiente. Infatti, nel caso in cui i dati scientifici non consentano una valutazione completa del rischio, il ricorso a questo principio consente, ad esempio, di impedire la distribuzione dei prodotti che possano essere pericolosi ovvero di ritirare tali prodotti dal mercato». Secondo tale comunicazione l’applicazione del principio di precauzione si deve fondare su tre principi specifici, quali «una valutazione scientifica la più completa possibile e la determinazione, nella misura del possibile, del grado d’incertezza scientifica; una valutazione del rischio e delle conseguenze potenziali dell’assenza di azione; la partecipazione di tutte le parti interessate allo studio delle misure di precauzione, non appena i risultati dalla valutazione scientifica e/o della valutazione del rischio sono disponibili».

(25) Secondo la Corte di Giustizia comunitaria e la giurisprudenza amministrativa, la tutela della salute diventa imperativa in presenza di rischi solo possibili, ma non ancora scientificamente accertati, atteso che la regola della precauzione può essere considerata un principio autonomo, discendente dalle disposizioni del Trattato (Corte di Giustizia CE, sentenza 26 novembre 2002 T132; sentenza 14 luglio 1998, causa C-248/95; sentenza 3 dicembre 1998, causa C-67/97, Bluhme; Cons. Stato, VI, 5 dicembre 2002, n. 6657; T.A.R. Lombardia, Brescia, 11 aprile 2005, n. 304; T.R.G.A. Trentino-Alto Adige, TN, 8 luglio 2010, n. 171). T.A.R. Lazio n. 664 del 2012, in riferimento al danno determinato da arsenico nell’acqua, ha espresso che «la fattispecie in esame riguarda, peraltro, un caso in cui risulta impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata di un rischio a causa della natura insufficiente, non concludente o imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persiste la probabilità di un danno reale per la salute nell’ipotesi in cui il rischio si realizzi, e quindi il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive purché non discriminatorie ed oggettive (Corte di Giustizia CE, Sez. II, 22 dicembre 2010, n. 77)».

(26) Il considerando n. 5 della risoluzione, cit., stabilisce che «gli alimenti provenienti da Paesi terzi che entrano nell’UE devono rispettare gli stessi standard elevati, al fine di non mettere a repentaglio la competitività dei produttori europei». La Corte di Giustizia CE, nel Cassis de Dijon, ha ammesso delle deroghe alla libera circolazione delle merci, al fine di soddisfare le esigenze di lealtà e di tutela del consumatore, alla condizione che questi limiti siano in grado di perseguire tali obiettivi e che non vadano oltre quanto è necessario al raggiungimento di tali scopi. La Corte ha riconosciuto che la libera prestazione di servizi e la libertà di stabilimento possono essere ristrette in favore dei consumatori, a condizione che tali azioni siano adeguate e proporzionate e non discriminatorie. Sentenza 20 febbraio 1979, causa C- 120/78, Rewe-Zentral AG. Inoltre, sentenze 23 febbraio 2006, causa C- 441/04, A-Punkt GmbH; 8 luglio 2004, causa C- 166/03, Commissione c. Francia; 12 ottobre 2000, causa C- 3/99, Cidrerie Ruwet SA; 9 febbraio 1999, causa C- 383/97, Van der Lan.

(27) Le partite di animali e di prodotti di origine animale, destinati all’alimentazione ed importati da Paesi terzi, sono controllate prima di essere ammesse sul territorio europeo. Tali controlli riguardano gli additivi, gli aromi, i coadiuvanti tecnologici ed i materiali da utilizzare negli alimenti. L’attività di controllo è attribuita al Ministero della Salute ed è svolta nei Posti di ispezione frontaliera e dagli Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera. L’Italia ha istituito degli Uffici veterinari per gli adempimenti comunitari.

(28) Il Regolamento di esecuzione (UE) n. 1267/2011 della Commissione del 6 dicembre 2011 ha modificato il regolamento (CE) n. 1235/2008 recante le modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 834/2007 del Consiglio in riferimento al regime di importazione di prodotti biologici dai Paesi terzi. Il considerando n. 5 rileva che «L’esperienza ha dimostrato che possono sorgere difficoltà nell’interpretare le conseguenze delle irregolarità o delle infrazioni concernenti lo status biologico di un prodotto. Per evitare ulteriori difficoltà e chiarire il legame tra il regolamento (CE) n. 1235/2008, quale modificato dal presente regolamento, e le altre disposizioni in vigore relative alle importazioni di prodotti biologici dai Paesi terzi, sembra pertanto necessario richiamare i doveri dell’organismo o dell’autorità di controllo degli Stati membri con riguardo ai prodotti non conformi importati a norma dell’articolo 33, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 834/2007. Tale chiarimento non deve tuttavia comportare nuovi obblighi per l’organismo o l’autorità di controllo e gli Stati membri». A tale stregua, l’art. 1 ha modificato l’articolo 12, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 1235/2008, che prevede i casi di soppressione dall’elenco dell’organismo o dell’autorità di controllo. Inoltre, tale regolamento ha sostituito l’articolo 15, relativo ai «Prodotti non conformi», e l’allegato IV, relativo all’elenco degli organismi e delle autorità di controllo designati ai fini dell’equivalenza, è sostituito dal testo figurante nell’allegato all’esposto regolamento.

(29) Il regolamento 882/2004 costituisce la normativa quadro per l’organizzazione dei controlli ufficiali relativi agli alimenti, mangimi, salute e benessere degli animali. In riferimento all’igiene delle produzioni alimentari, la disciplina applicabile dal 1° gennaio 2006 è prevista nei regolamenti e nelle direttive «pacchetto igiene». Le principali fonti comunitarie sull’igiene alimentare sono le seguenti. Il Reg. n. 852/2004/CE sancisce che «L’obiettivo fondamentale delle nuove norme d’igiene generali e specifiche è quello di garantire un elevato livello di tutela dei consumatori con riguardo alla sicurezza degli alimenti». L’art. 1 del regolamento, intitolato «Ambito di applicazione», al n. 1 prevede quanto segue: «Il presente regolamento stabilisce norme generali in materia di igiene dei prodotti alimentari destinate agli operatori del settore alimentare, tenendo conto in particolare dei seguenti principi: a) la responsabilità principale per la sicurezza degli alimenti incombe sull’operatore del settore alimentare; (…) d) l’applicazione generalizzata di procedure basate sui principi del sistema HACCP [principi del sistema dell’analisi dei pericoli e dei punti critici di controllo], unitamente all’applicazione di una corretta prassi igienica, dovrebbe accrescere la responsabilità degli operatori del settore alimentare; (…)». L’art. 5 del regolamento, intitolato «Analisi dei pericoli e punti critici di controllo», dispone, ai nn. 1 e 2, che «1. Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure permanenti, basate sui principi del sistema HACCP. 2. I principi del sistema HACCP di cui al paragrafo 1 consistono nell’identificare ogni pericolo che deve essere prevenuto, eliminato o ridotto a livelli accettabili.». Il regolamento n. 854/2004/CE «(…) stabilisce norme specifiche per l’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano». In riferimento a quest’ultimo, occorre rilevare alcune novità. Il Reg. UE n. 739/2011 della Commissione del 27 luglio 2011 modifica l’allegato I del Reg. CE n. 854/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio. Il sistema di classificazione ed elencazione delle malattie dell’OIE (organizzazione mondiale per la sanità animale) è cambiato. Gli elenchi A e B sono stati sostituiti da un unico elenco. Secondo il regolamento cit. è opportuno modificare le disposizioni pertinenti dell’allegato I, sezioni I, II e III, di tale regolamento e fare riferimento alle malattie degli animali contemplate dalla legislazione dell’Unione in relazione all’effettuazione di ispezioni ante o post mortem o di altre attività ispettive, tranne nel caso di malattie attualmente sconosciute originarie di Paesi terzi. Rientrano nel pacchetto igiene il Reg. 882/2004/CE «relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali», la Dir. CE n. 2004/41/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, «che abroga alcune direttive recanti norme sull’igiene dei prodotti alimentari e le disposizioni sanitarie per la produzione e la commercializzazione di determinati prodotti di origine animale destinati al consumo umano e che modifica le direttive n. 89/662/CEE e n. 92/118/CEE del Consiglio e la decisione n. 95/408/CE del Consiglio». La disciplina comunitaria in materia è altresì costituita dal Reg. n. 1935/2004/CE, «riguardante i materiali e gli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari e che abroga le direttive n. 80/590/CEE e n. 89/109/CEE», dal Reg. n. 183/2005/CE, «che stabilisce requisiti per l’igiene dei mangimi», e dal Reg. n. 1774/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 ottobre 2002, «recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano». La Dir. n. 2002/99/CE del Consiglio, «che stabilisce norme di polizia sanitaria per la produzione, la trasformazione, la distribuzione e l’introduzione di prodotti di origine animale destinati al consumo umano», è stata recepita nell’ordinamento italiano dal D.Lgs. 27 maggio 2005 n. 117, «Attuazione della direttiva n. 2002/99/CE che stabilisce norme di polizia sanitaria per la produzione, la trasformazione, la distribuzione e l’introduzione di prodotti di origine animale destinati al consumo umano», in Guri n. 152 del 2 luglio 2005. In particolare, la Dir. 2002/99/CE del 16 dicembre 2002 stabilisce che i prodotti di origine animale devono essere ottenuti da animali non provenienti da un’azienda, uno stabilimento, un territorio o una parte di esso soggetti a restrizioni di polizia sanitaria. L’allegato I di tale direttiva elenca la legislazione dell’Unione relativa alle misure di controllo per determinate malattie degli animali, relative agli scambi di prodotti di origine animale. Il Reg. UE n. 739/2011 della Commissione del 27 luglio 2011 ha rilevato che, per coerenza, gli scambi di prodotti di origine animale vanno sottoposti a restrizioni per motivi di sanità animale, secondo la legislazione dell’Unione elencata nell’allegato I. Un ulteriore intervento riguarda il Reg. CE n. 1663/2006 della Commissione del 6 novembre 2006, di modifica del Reg. CE n. 854/2004, che disciplina l’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano. Il Capo I, relativo al controllo delle aziende produttrici di latte e colostro, prevede che gli animali delle aziende di produzione di latte e colostro devono essere sottoposti a controlli ufficiali al fine di verificare il rispetto delle norme sanitarie relative alla produzione di latte crudo e colostro, in particolare allo stato di salute degli animali e all’impiego di medicinali veterinari. Al riguardo, l’autorità competente deve monitorare i controlli in conformità all’allegato III, sezione IX, capitolo I, parte III, del Reg. CE n. 853/2004. I regolamenti comunitari sull’igiene sono analizzati da F. Capelli, La direttiva «Killer» e le sue vittime, in D. com. scambi int., 2006, p. 95; M. Astuti – F. Castoldi, Pacchetto igiene, le nuove norme comunitarie, Lavis Edagricole, 2006. A livello nazionale, in riferimento all’igiene dei prodotti di origine animale ed al fine di migliorare l’efficacia delle attività per la tutela dei consumatori, il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 ha previsto che «le verifiche circa l’implementazione della normativa comunitaria in materia di igiene degli alimenti andranno effettuate attraverso specifici audit di settore tenendo conto anche delle raccomandazioni emerse nel corso delle ispezioni/audit del Food Veterinary Office della Commissione Europea». In particolare, per i prodotti della pesca, del latte, della carne, e della ricerca dei residui e dei contaminanti ambientali, il Piano Sanitario Nazionale rileva che occorre intervenire, con le Regioni e con le Province, attraverso intese e linee guida.

(30) L’esportazione delle carni e dei prodotti a base di carne è prevista in accordi internazionali, che limitano la commercializzazione secondo la specie animale e l’area di produzione. L’esportazione dall’Italia di carni bovine, ovine e caprine è limitata per gli effetti del BSE/TSE nell’Unione Europea. L’esportazione delle carni suine e dei prodotti a base di carni suine è ammessa. Ai fini della sicurezza sono necessari, per i prodotti a base di carne cotta con trattamenti termici o di carne cruda, periodi di stagionatura prolungati. L’esportazione di carni fresche suine è consentita verso il Giappone ma è negata verso gli USA; per entrambi i Paesi sono previste delle liste di stabilimenti italiani abilitati all’esportazione. In Russia è ammessa l’esportazione di carni bovine, suine, equine e di pollame da alcuni stabilimenti individuati dalle Autorità russe secondo memorandum firmati con la UE, invece è consentita l’esportazione di prodotti a base di carne. In Cina è stata avviata l’esportazione di prodotti a base di carne cruda stagionata in stabilimenti autorizzati. I prodotti a base di latte sono esportati in numerosi Paesi terzi e senza specifiche limitazioni. Per i prodotti vegetali non sono previsti accordi con Paesi terzi e l’esportazione avviene senza ostacoli. In Russia occorre l’assenza di residui di fitofarmaci nei prodotti ortofrutticoli freschi, in quanto le norme europee prevedono dei limiti di tolleranza compatibili con i trattamenti eseguiti in osservanza di quanto previsto per i principi attivi e le pratiche di coltivazione. Inoltre, sussistono questioni relative all’esportazione di prodotti composti con ingredienti di origine animale (gelato). Le norme europee includono i prodotti composti tra quelli disciplinati dal Regolamento (CE) 852/2004 e non soggetti a controllo veterinario. Il Sistema ICARUS consente alle aziende abilitate all’esportazione di alimenti di inserire annualmente i dati per la ricertificazione degli stabilimenti e sulle attività di controllo svolte, sui piani di campionamento e di analisi di laboratorio. Tale programma informatico è utilizzato dagli stabilimenti abilitati all’esportazione negli Stati Uniti di prodotti a base di carne, per la ricertificazione e la raccolta degli esiti nella ricerca di salmonella e listeria monocytogenes.

(31) Il recepimento della direttiva sulla sicurezza generale dei prodotti è avvenuto con il D.Lgs. 21 maggio 2004 n. 172, «Attuazione della direttiva n. 2001/95/CE relativa alla sicurezza generale dei prodotti». La direttiva 87/357/CEE, concernente i prodotti non commestibili, ma confondibili con i prodotti alimentari per apparenza, odore ed imballaggio, impone il divieto di commercializzazione, importazione e fabbricazione di tali prodotti.

(32) La politica alimentare europea è prevista nel Libro Verde della Commissione sui Principi generali della legislazione in materia alimentare nell’Unione Europea (Com (1997) 176 def.) e nel Libro Bianco sulla Sicurezza alimentare del 12 gennaio 2000 (Com (1999) 719 def.). Si v. Commissione delle Comunità Europee, Libro Bianco sulla Sicurezza alimentare (12 gennaio 2000), in http://ec.europa.eu/dgs/health_consumer/library/pub/pub06_en.pdf. Il Libro Bianco è stato adottato nella ratio secondo cui «l’Unione europea deve ristabilire la fiducia del pubblico nei suoi approvvigionamenti, nella scienza degli alimenti, nella sua normativa in materia alimentare e nei suoi controlli degli alimenti». A tale stregua, il Libro Bianco contiene alcune proposte finalizzate a riorganizzare il sistema della sicurezza alimentare e a garantire «il più alto livello possibile di protezione della salute» e trasparenza, in grado di «accrescere la fiducia dei consumatori nella politica di sicurezza alimentare della UE». In riferimento alla strategia sulla sicurezza alimentare, occorre rilevare che, a seguito della diffusione di batteri e di malattie letali, l’Unione Europea ha finanziato la promozione di attività di ricerca per rispondere alle epidemie esistenti e prevenire i rischi imprevisti da epidemie emergenti. La raccomandazione della Commissione Europea del 28 aprile 2010, relativa all’iniziativa di programmazione congiunta nella ricerca «Un’alimentazione sana per una vita sana», dopo avere rilevato che «La salute dei cittadini è essenziale per la crescita e la prosperità dell’Unione», ha incoraggiato gli Stati membri «a sviluppare una visione comune su come la cooperazione e il coordinamento nel settore della ricerca a livello dell’Unione possono migliorare la prevenzione delle malattie legate all’alimentazione». Tale regolamento prevede la definizione di «un’agenda strategica di ricerca che individui necessità e obiettivi di ricerca a medio e lungo termine in materia di prevenzione delle malattie legate all’alimentazione. L’agenda strategica di ricerca dovrebbe includere un piano di attuazione che definisca le priorità e la tempistica e specifichi le azioni, gli strumenti e le risorse necessarie per la sua attuazione».

(33) V. il Reg. 2002/178/CE, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’«Autorità europea per la sicurezza alimentare» e fissa le procedure di controllo. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare fornisce pareri sulle caratteristiche nutrizionali degli alimenti e informa il consumatore sulle possibilità alimentari. Si segnala la dichiarazione del 17 settembre 2010 dell’EFSA sulle ricerche scientifiche condotte sui cloni animali e sulla loro progenie. L’EFSA conferma le precedenti conclusioni secondo cui «il tasso di mortalità e il numero di animali affetti da anomalie dello sviluppo alla nascita è più alto nei cloni rispetto agli animali allevati in modo tradizionale; in termini di sicurezza alimentare, nulla lascia supporre che esistano differenze nella carne e nel latte dei cloni e della loro progenie rispetto a quelli di animali allevati in modo tradizionale». L’Autorità europea per la sicurezza alimentare è incaricata dalla Commissione europea di valutare le questioni di sicurezza alimentare derivanti da reazioni allergiche ai parassiti nei prodotti ittici e di valutare i metodi di riduzione dei rischi di infezione (Notizia 14 aprile 2010).

(34) La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2001/95/CE relativa alla sicurezza generale dei prodotti è stata recepita nel nostro ordinamento agli artt. 102 e ss. del codice del consumo.

(35) Secondo l’art. 3 della dir. cit. un prodotto si considera sicuro quando è conforme alle disposizioni comunitarie in materia di sicurezza o, in assenza di disposizioni comunitarie, alle disposizioni nazionali specifiche dello Stato membro di commercializzazione, purché queste ultime non intralcino la libera circolazione delle merci ai sensi degli artt. 28 e 30 TCE. In riferimento al ruolo di tale principio nell’ambito delle fonti del diritto internazionale, si segnala una decisione su un caso di carne agli ormoni tra USA e UE, Appellate Body Report, EC Measures Concerning Meat and Meat Products (Hormones), WT/DS26/AB/R, WT/DS48/AB/R, del 13 febbraio 1998, e, in materia di nuovi prodotti contenenti od ottenuti da OGM, la decisione del Panel Report – European communities – Measures affecting the approval and marketing of biotech products, del 29 settembre 2006, disponibili sul sito dell’OMC, www.wto.org.

(36) In G.U.C.E. n. L. 31 del 1° febbraio 2002. Secondo l’art. 3, n. 1, del reg. n. 178 del 2002, la legislazione alimentare è costituita dalle «leggi, regolamenti e disposizioni amministrative riguardanti gli alimenti in generale, e la sicurezza degli alimenti in particolare, sia nella Comunità che a livello nazionale», relativa a «tutte le fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti e anche dei mangimi prodotti per gli animali destinati alla produzione alimentare o ad essi somministrati». Il decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 190, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 23 maggio 2006 n. 118, prevede la «Disciplina sanzionatoria per le violazioni del regolamento (CE) n. 178/2002 che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel settore della sicurezza alimentare».

(37) Si v. A. Germanò e E. Rook Basile, Il diritto alimentare tra comunicazione e sicurezza dei prodotti, Torino, 2005, pag. 223 ss.

(38) In particolare, «se dei prodotti sono soggetti a requisiti di sicurezza prescritti dalla normativa comunitaria, la presente direttiva si applica unicamente per gli aspetti e i rischi o le categorie di rischi non soggetti a tali requisiti». La Dir. 2006/128/CE della Commissione dell’8 dicembre 2006, di modifica della direttiva 95/31/CE della Commissione, del 5 luglio 1995, relativa ai requisiti di purezza per gli edulcoranti ad uso alimentare, ha previsto i criteri specifici per l’E 968 eritritolo, un additivo alimentare autorizzato dalla direttiva 2006/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, che modifica la direttiva 95/2/CE relativa agli additivi alimentari diversi dai coloranti e dagli edulcoranti e la direttiva 94/35/CE sugli edulcoranti per uso alimentare. Tale direttiva ha riscontrato nelle versioni linguistiche della direttiva 95/31/CE errori per alcune sostanze. A tale stregua, sono state utilizzate le tecniche di analisi per gli additivi previste nel Codex Alimentarius, secondo quanto stabilito dal comitato misto FAO/OMS di esperti sugli additivi alimentari (JECFA). Per i requisiti di purezza specifici negli additivi alimentari diversi dai coloranti e dagli edulcoranti, la Direttiva 2006/129/CE ha soppresso il criterio di purezza in alcune sostanze. Al riguardo sono stati individuati i nuovi additivi alimentari autorizzati con la direttiva 2006/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, che modifica la direttiva 95/2/CE sugli additivi alimentari diversi dai coloranti e dagli edulcoranti e la direttiva 94/35/CE sugli edulcoranti destinati ad essere utilizzati nei prodotti alimentari.

(39) Secondo D. Pisanello, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2008, n. 4, pag. 722, «se la quasi totalità degli obblighi di sicurezza generale previsti dalla direttiva trova nella legislazione alimentare puntuali e più dettagliate disposizioni, il rapporto tra i due settori normativi vede la direttiva sulla sicurezza generale dei prodotti come normativa di residuale applicazione relativamente ai rischi o categorie di rischi non contemplati dalla normativa di settore». Al riguardo, il Reg. CE n. 1028/2006 prevede le norme di commercializzazione applicabili alle uova. A seguito dell’esperienza acquisita con l’applicazione del Reg. CE n. 1907/90, relativo a talune norme di commercializzazione applicabili alle uova, è stato necessario apportare ulteriori modifiche e procedere ad una semplificazione. Al riguardo, è opportuno effettuare una distinzione tra le uova adatte al consumo umano diretto e le uova non adatte a tale consumo umano, da destinare all’industria alimentare o non alimentare (si individua una categoria A e una categoria B). Inoltre è necessario per il consumatore distinguere le uova di diverse categorie di qualità e peso ed identificare il metodo di allevamento, a norma della Dir. 2002/4/CE della Commissione, del 30 gennaio 2002, relativa alla registrazione degli stabilimenti di allevamento di galline ovaiole, di cui alla Dir. 1999/74/CE. Secondo tale regolamento, per la tracciabilità delle uova di categoria A immesse sul mercato per il consumo umano, dovrebbe essere stampigliato su di esse il numero distintivo del produttore. Inoltre, per garantire l’adeguata attrezzatura per la classificazione e l’imballaggio delle uova della categoria A, è necessaria l’autorizzazione delle competenti autorità e che venga attribuito un codice di identificazione che faciliti la tracciabilità delle uova immesse sul mercato. Nell’interesse dei produttori e dei consumatori, occorre che le uova importate dai Paesi terzi siano conformi alle norme europee. Tuttavia, le disposizioni in vigore in alcuni Paesi terzi possono prevedere delle deroghe qualora sia garantita l’equivalenza della legislazione. Al riguardo, gli Stati membri individuano i servizi di ispezione responsabili del controllo del rispetto di tale regolamento. Le procedure di questo controllo dovrebbero essere uniformi e gli Stati membri dovrebbero stabilire sanzioni in caso di violazione delle disposizioni di tale regolamento. Le misure necessarie per l’attuazione del regolamento sono state adottate con la decisione 1999/468/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione. Secondo tale normativa, è opportuno che i centri d’imballaggio riconosciuti dal Reg. CE n. 853/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, che stabilisce le norme in materia di igiene per gli alimenti di origine animale, provvedano alla classificazione delle uova in base alla qualità e al peso.

(40) Il regolamento (CE) n. 1129/2011 dell’11 novembre 2011 ha modificato l’allegato II del regolamento (CE) n. 1333/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha istituito un elenco dell’Unione degli additivi alimentari autorizzati negli alimenti e ha stabilito le condizioni del loro uso. Gli additivi alimentari attualmente autorizzati negli alimenti a norma della direttiva 94/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 giugno 1994, sugli edulcoranti destinati ad essere utilizzati nei prodotti alimentari, della direttiva 94/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 giugno 1994, sulle sostanze coloranti destinate ad essere utilizzate nei prodotti alimentari, e della direttiva 95/2/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 febbraio 1995, relativa agli additivi alimentari diversi dai coloranti e dagli edulcoranti, devono essere inclusi nell’allegato II del regolamento (CE) n. 1333/2008 dopo che è stata esaminata la conformità agli articoli 6, 7 e 8 di detto regolamento. Gli additivi alimentari e gli usi non più necessari non devono essere inseriti nell’allegato II di detto regolamento. Soltanto gli additivi alimentari inclusi nell’elenco dell’Unione di cui all’allegato II del regolamento (CE) n. 1333/2008 possono essere immessi sul mercato e utilizzati negli alimenti alle condizioni d’uso ivi specificate. L’elenco degli additivi è stabilito sulla base delle categorie alimentari ove essi possono essere aggiunti. Il sistema consolidato di categorizzazione degli alimenti è stato utilizzato come punto di partenza per sviluppare il sistema dell’Unione. È tuttavia necessario adattare tale sistema al fine di tenere conto della specificità delle autorizzazioni per gli additivi alimentari. Ai fini dell’autorizzazione, è necessario elencare gli additivi alimentari in gruppi di additivi suddivisi per determinati alimenti. È opportuno fornire indicazioni per descrivere le diverse categorie al fine di garantire un’interpretazione uniforme. Se necessario, possono essere adottate decisioni di interpretazione a norma dell’articolo 19 del regolamento (CE) n. 1333/2008 al fine di chiarire l’appartenenza di un determinato alimento ad una delle categorie di alimenti. Il Reg. (CE) n. 1130/2011 dell’11 novembre 2011 ha modificato l’allegato III del regolamento (CE) n. 1333/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo agli additivi alimentari istituendo un elenco dell’Unione degli additivi autorizzati negli additivi alimentari, negli enzimi alimentari, negli aromi alimentari e nei nutrienti. Ai sensi del I considerando, l’allegato III del regolamento (CE) n. 1333/2008 istituisce gli elenchi dell’Unione degli additivi alimentari e stabilisce le condizioni del loro uso negli additivi alimentari (parti 1 e 2), negli enzimi alimentari (parte 3), negli aromi alimentari (parte 4) e nei nutrienti o in categorie di tali sostanze (parte 5) cui gli additivi alimentari possono essere aggiunti a norma dell’articolo 4, paragrafo 4, del medesimo regolamento. Questi additivi alimentari sono utilizzati per esercitare una funzione tecnologica negli additivi, enzimi o aromi alimentari o nei nutrienti. Ai sensi del II considerando, «Gli additivi alimentari compresi nell’allegato III del regolamento (CE) n. 1333/2008 possono essere classificati in una delle categorie funzionali previste dall’allegato I sulla base della loro funzione tecnologica principale. Tuttavia, secondo quanto previsto dall’articolo 9 di tale regolamento, la classificazione di un additivo alimentare in una categoria funzionale non esclude che esso sia utilizzato per più funzioni».

(41) Si v. A. Germanò, op. cit., pag. 63, secondo cui le differenti funzioni sono ripartite tra uffici comunitari ed uffici nazionali, «in una logica di integrazione piuttosto che di separazione tra l’ordinamento della Comunità e gli ordinamenti degli Stati membri». In particolare, l’autore rileva che «nel diritto comunitario delle biotecnologie l’amministrazione europea e le amministrazioni nazionali risultano contitolari dell’esercizio della funzione amministrativa, che si svolge attraverso procedure articolate su differenti fasi interdipendenti». A livello nazionale, si rileva che il D.P.R. 11 marzo 2011, n. 108, il «Regolamento di organizzazione del Ministero della salute», agli artt. 7 e 8 ha assegnato al Ministero della salute – Dipartimento della sanità pubblica veterinaria, della sicurezza alimentare e degli organi collegiali per la tutela della salute le funzioni precedentemente attribuite all’Agenzia Nazionale per la Sicurezza Alimentare.

(42) Nel 2009 l’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha indicato alle autorità di sicurezza alimentare, in alcuni documenti, le modalità di valutazione della sicurezza di sostanze e preparati vegetali destinati all’impiego negli integratori alimentari. Al riguardo, si considerano sostanze vegetali, le piante, le alghe e i funghi interi, tagliati o sminuzzati. I preparati vegetali si ottengono da tali sostanze, con pressatura, distillazione e fermentazione. Tale attività riguarda l’industria alimentare per le informazioni sulla sicurezza degli ingredienti da utilizzare nei propri prodotti. Un parere del comitato scientifico dell’EFSA specifica i dati nel condurre le valutazioni della sicurezza e consiglia un approccio scientifico a due livelli, in base al grado di conoscenza di un determinato derivato vegetale e della sostanza o sostanze in esso contenute. Al riguardo, è stato rilevato un rischio per la salute, derivante dall’impiego di tali derivati. Il documento prevede i criteri per individuare le priorità di valutazione della sicurezza degli ingredienti vegetali. Una relazione redatta da un gruppo di esperti scelti dall’EFSA e dalle autorità nazionali spiega l’applicazione di tale metodo in varie circostanze. Inoltre, l’EFSA ha raccolto le informazioni sui derivati vegetali contenenti sostanze per le quali sono stati segnalati effetti avversi sulla salute, se utilizzate in alimenti o integratori alimentari. Tale compendio è un sussidio dei produttori e delle autorità per la sicurezza alimentare, in grado di evidenziare i punti critici di sicurezza.

(43) La disciplina igienica degli alimenti è demandata alla legislazione nazionale su vari aspetti, quali l’identificazione dell’autorità competente per i controlli ufficiali sugli alimenti (art. 4 del Reg. CE n. 882 del 2004) e la definizione delle «regole in materia di sanzioni» (art. 55 del Reg. CE n. 882 del 2004). A tale stregua, la trasposizione nel diritto interno della Dir. CE n. 2004/41 e l’adeguamento nazionale al pacchetto igiene sono avvenuti attraverso il D.Lgs. 6 novembre 2007 n. 193, recante «Attuazione della direttiva 2004/41/CE relativa ai controlli in materia di sicurezza alimentare e applicazione dei regolamenti comunitari nel medesimo settore».

(44) Si v. il Piano Sanitario Nazionale anni 2011-2013 al par. 2.5: «la riduzione dei rischi per il consumatore, il miglioramento delle produzioni zootecniche e degli alimenti rendono necessaria un’azione sinergica da parte del Governo centrale e delle Regioni e Province Autonome, che deve coinvolgere anche altri attori, quali — tra gli altri — le istituzioni scientifiche e le associazioni dei produttori e dei consumatori».

(45) Ai sensi del Regolamento (CE) n. 882/2004 è stato elaborato un Piano Nazionale Integrato (PNI o MANCP), che prevede il «Sistema Italia» dei controlli ufficiali in materia di alimenti, mangimi, sanità e benessere animale e sanità delle piante, al fine di razionalizzare le attività mediante un’opportuna valutazione dei rischi ed un adeguato coordinamento dei soggetti istituzionali coinvolti. In particolare, con l’Intesa del 16 dicembre 2010 è stato approvato il Piano 2011-2014, elaborato in collaborazione dal Ministero della Salute, punto di contatto nazionale, da diverse Amministrazioni e dalla Conferenza Stato-Regioni.

(46) Di rilievo è la definizione di «prodotti alimentari deteriorabili», quali i prodotti agricoli, ittici e alimentari preconfezionati che riportano una data di scadenza o un termine di conservazione non superiore a sessanta giorni ed i prodotti agricoli, ittici e alimentari sfusi, comprese erbe e piante cromatiche, anche se posti in un involucro protettivo o refrigerati, non sottoposti a trattamenti atti a prolungare la durabilità degli stessi per un periodo superiore a sessanta giorni. Infine, rientrano tra i prodotti deteriorabili i prodotti a base di carne che presentino determinate caratteristiche fisico-chimiche e tutti i tipi di latte.

(47) Il Piano Sanitario Nazionale, al par. 2.5, rileva l’esigenza di una completa applicazione della normativa europea attraverso una sistematizzazione ed armonizzazione tra la normativa europea e quella nazionale, e dell’applicazione di strumenti normativi e/o amministrativi appropriati, al fine di colmare le lacune interpretative.

(48) In riferimento ai prodotti alimentari destinati ad un’alimentazione particolare, si v. la Direttiva 2009/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 maggio 2009, e l’allegato del regolamento (CE) n. 953/2009 della Commissione, relativi alle sostanze che possono essere aggiunte, per scopi nutrizionali specifici, ai prodotti alimentari destinati ad un’alimentazione particolare. Il Reg. (UE) n. 1161/2011 della Commissione del 14 novembre 2011, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 15 novembre 2011, ha modificato la direttiva 2002/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, il regolamento (CE) n. 1925/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 953/2009 della Commissione per quanto riguarda gli elenchi di minerali che possono essere aggiunti agli alimenti. L’art. 3 modifica la categoria 2 (minerali) dell’allegato del regolamento (CE) n. 953/2009: «dopo la voce “solfato ferroso” sono inserite le seguenti voci: “fosfato di ammonio ferroso x sodio ferrico EDTA x”» e «dopo la voce “solfato di cromo (III) e il suo esaidrato” è inserita la seguente voce: “picolinato di cromo”».

(49) In merito, è necessario precisare che i principi della legislazione alimentare e gli obblighi generali di sicurezza sono stati applicati «come criteri di attuazione delle discipline nazionali vigenti» (art. 4.4). Si v. A. Germanò, Il sistema della sicurezza alimentare, in R. d. agr., Vol. 85, 2006, pagg. 56-57, secondo cui tale disposizione impone agli interpreti di applicare, come criterio di attuazione delle leggi nazionali, i principi generali espressi dal regolamento. «Ciò fa pensare che la Comunità fosse convinta che le legislazioni alimentari degli Stati membri dell’inizio del secolo non fossero conformi ai principi ora dettati: sicché esse devono quanto meno e da subito essere interpretate in modo armonizzato. E si tratta, come si è accennato, in particolare del principio di precauzione (art. 7), della tutela del consumatore (art. 8), dell’obbligo di informazione (art. 10)». Si rileva che alcune norme del Reg. CE n. 178 del 2002 sono state di immediata vigenza, quali i principi generali (art. 1.2) ed i principi espressi dagli artt. 5-10, mentre le disposizioni sul commercio alimentare extra comunitario (artt. 11-12) e sui requisiti generali della legislazione alimentare (artt. 14-20) sono entrate in vigore il 1° gennaio 2005 (art. 65.2). Infine, l’art. 4.3 ha previsto l’adeguamento, entro il 1° gennaio 2007, dei principi e delle procedure nazionali ai «principi generali della legislazione alimentare europea».

(50) Si v. A. Germanò, cit., pag. 57 e ss., che spiega la ratio della presenza di numerose definizioni previste dal reg. n. 178 del 2002. In particolare, si afferma che «un mercato unico, come è quello dell’Unione Europea, pretende, perché possa funzionare, che le parole usabili dai contraenti siano intese allo stesso modo, cioè che tra il parlante e l’ascoltatore non vi siano equivoci: in altri termini, occorrono regole linguistiche uniformi. (…). Così sono le disposizioni comunitarie che spiegano che cosa vogliano dire, in tutto il mercato comune, le parole imballaggio ed anche alimento o mangime, che i regolamenti o le direttive della Comunità adoperano». Sui rapporti tra normativa comunitaria e normativa nazionale, l’autore afferma che «la spiegazione data dal legislatore comunitario vincola l’interprete come qualsiasi altra norma giuridica, il che però non esclude la possibilità di un’attività ermeneutica che potrebbe, per avventura, essere diversa a seconda della cultura e delle tradizioni storiche e giuridiche dell’interprete nazionale: ed è per questo che il sistema europeo delle fonti ha al vertice la Corte di Giustizia, a cui è demandata la definitiva interpretazione del diritto comunitario con sentenze che hanno il valore di vera e propria fonte del diritto». La definizione prevista nel reg. esposto, secondo l’autore, «è una vera norma, con la conseguenza che essa, per il principio di supremazia del diritto comunitario, prevale su qualsiasi norma analoga contenuta nelle legislazioni nazionali». In riferimento alle conseguenze derivanti dalla non conformazione del diritto interno al diritto comunitario in materia di sicurezza alimentare, l’autore rileva che «qualora negli Stati membri (legislatore, governo, ordine giudiziario, pubblica amministrazione) si equivocasse sul significato dei termini utilizzati dalle norme comunitarie, si avrebbe un modo scorretto di adeguamento della legislazione domestica a quella comunitaria, con eventuale responsabilità per i danni subiti dai cittadini. A ciò si aggiungono le gravi conseguenze sul funzionamento del mercato comune, perché è evidente che le differenze di termini, di concetti e di procedure nelle legislazioni degli Stati membri nella materia della sicurezza alimentare ostacolerebbero la libera circolazione delle merci, creando condizioni di concorrenza non omogenee».

(51) La Dir. cit. definisce il medicinale «ogni sostanza o composizione presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane» (c.d. medicinale «per presentazione») nonché «ogni sostanza o composizione da somministrare all’uomo allo scopo di stabilire una diagnosi medica o di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche dell’uomo» (c.d. medicinale «per funzione») (art. 1, punto 2). La definizione di integratori alimentari è prevista dall’art. 2, lett. a), della direttiva 2002/46/CE: «I prodotti alimentari destinati ad integrare la dieta normale e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico, sia monocomposti che pluricomposti, in forme di dosaggio, vale a dire in forme di commercializzazione quali capsule, pastiglie, compresse, pillole e simili, polveri in bustina, liquidi contenuti in fiale, flaconi a contagocce e altre forme simili, di liquidi e polveri destinati ad essere assunti in piccoli quantitativi unitari». Inoltre, la direttiva prevede che «Nessun medicinale può essere immesso in commercio in uno Stato membro senza un’autorizzazione all’immissione in commercio delle autorità competenti di detto Stato membro rilasciata a norma della presente direttiva oppure senza un’autorizzazione a norma del Reg. CE n. 2309/93» (art. 6 n. 1). La C. Giust. CE, 15 novembre 2007, causa C-319/05, nella vicenda di non autorizzazione delle autorità tedesche all’importazione ed alla commercializzazione di un preparato a base d’aglio in forma di capsule, ha rilevato che tale prodotto non si può considerare un medicinale per presentazione. Secondo i giudici, la rappresentazione sulla scatola dell’aglio, a fianco della quale sono raffigurate alcune capsule, anche se simile ai prodotti commercializzati come medicinali, non può creare nel consumatore medio la fiducia nei medicinali. Inoltre, la commercializzazione sotto forma di capsule non esprime la volontà di presentare il prodotto come medicinale dato che, a prescindere dalla circostanza che alcuni prodotti alimentari sono presentati in commercio sotto forma di capsule, la direttiva 2002/46 individua gli integratori alimentari attraverso la forma di commercializzazione in capsule. Ne consegue che le capsule possono essere utilizzate sia per gli integratori che per i prodotti alimentari. Inoltre, il prodotto a base d’aglio non può essere considerato un medicinale per funzione, in quanto l’assunzione del prodotto ha alcune funzioni benefiche per l’organismo. Tuttavia, ai fini della qualifica come medicinale, non è sufficiente che un prodotto abbia proprietà benefiche per la salute, in quanto è necessario che esso abbia effetti significativi sul metabolismo. Secondo la direttiva 2001/83, occorre che il prodotto sia in grado «de restaurer, de corriger ou de modifier des fonctions physiologiques». In un’altra controversia diretta a distinguere tra medicinali ed alimenti (si trattava di una sostanza finalizzata ad aumentare la massa muscolare) la Corte federale tedesca, con la sentenza dell’11 luglio 2002, ha riconosciuto che la definizione interna di alimento è sostituita dalla definizione, prevista nell’art. 2 del Reg. CE n. 178 del 2002, che non prevede lo scopo di nutrizione, mentre la legge tedesca sui prodotti alimentari prevede tale scopo come criterio rilevante.

(52) Si v. A. Germanò, cit., pag. 62, il quale rileva che «le nuove proposte di regolamenti o di direttive nel settore alimentare della Comunità vengono, nel gergo degli addetti ai lavori, identificate con l’accoppiata food and feed». L’autore precisa che «i vegetali prima della raccolta non sono alimenti; mentre gli animali vivi sono alimenti di per sé stessi quando, come le ostriche, sono preparati per l’immissione sul mercato ai fini del consumo umano, ma essi, inoltre, rilevano, ai fini della sicurezza alimentare, anche se sono allevati ai fini dell’alimentazione umana e ciò in tutto il periodo stesso dell’allevamento».

(53) Un profilo critico riguarda l’individuazione del «consumatore» e dell’«operatore alimentare». Il consumatore è qualificato dal reg. n. 178 del 2002, «finale», quale l’ultimo destinatario del prodotto alimentare, ossia colui che «ingerisce» l’alimento. La giurisprudenza comunitaria ha individuato il consumatore nella «persona fisica che agisce per un uso estraneo alla propria attività professionale». A tale stregua, si considera consumatore finale colui «che non utilizza il prodotto nell’ambito di un’operazione o attività di un’impresa del settore alimentare» (art. 3, punto 18). Si v. A. Germanò, cit., pag. 66: «Come può rilevarsi dal globale diritto comunitario in cui più volte risulta usata la locuzione “consumatore”, costui è un soggetto giustapposto tanto al produttore quanto all’utente intermedio». In considerazione dei riferimenti esposti, gli utenti intermedi non possono essere considerati «consumatori», in quanto «partecipano» nei momenti intermedi del circuito distributivo degli alimenti e sono tenuti ad osservare le norme a tutela della salute del consumatore finale.

(54) Al secondo comma dell’articolo si precisa che le misure adottate sono «proporzionate e prevedono le sole restrizioni al commercio che siano necessarie per raggiungere il livello elevato di tutela della salute perseguito nella Comunità, tenendo conto della realizzabilità tecnica ed economica e di altri aspetti, se pertinenti», e che «tali misure sono riesaminate entro un periodo di tempo ragionevole a seconda della natura del rischio per la vita o per la salute individuato e del tipo di informazioni scientifiche necessarie per risolvere la situazione di incertezza scientifica e per realizzare una valutazione del rischio più esauriente». L’art. 7 del reg. CE n. 178 del 2002 ha così definito il principio di precauzione: «Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute umana ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio». Si v. Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Salute e Sanità, a cura di R. Ferrara, 2010, parte I, cap. 1, pag. 16; secondo l’autore «(…) ogni contemporaneo discorso intorno al diritto alla salute apprezzato nel suo divenire evolutivo si focalizza ormai intorno al principio di precauzione, sia che si riferisca alla protezione dell’ambiente che alla tutela alimentare (…)». Secondo l’autore «(…) il principio di precauzione, nato nel contesto del diritto ambientale (dalle fonti del diritto internazionale a quelle del diritto europeo), dilaga, per così dire, per ogni dove, permeando di sé, quasi alla stregua di un principio sonda, i settori sensibili degli ordinamenti contemporanei». In particolare, l’autore rileva che «(…) se si passa alla disciplina degli alimenti e, principalmente, ai postulati della scienza medica applicata, il modo di ragionare degli economisti e dei giuristi appare in qualche modo incomprensibile, e quasi indigesto, agli scienziati tout court, ad avviso dei quali o il principio di precauzione si rivela come totalmente inutile oppure, nella migliore delle ipotesi, si identifica (e si esaurisce) nel tradizionale concetto di diligenza». Sulla questione si v. altresì F. De Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione del rischio, Milano, Giuffrè, 2005.

(55) Al riguardo, l’art. 14.4, nel qualificare l’alimento dannoso, rinvia ai «probabili effetti immediati e/o a breve termine e/o a lungo termine dell’alimento sulla salute di una persona che lo consuma, ma anche su quella dei discendenti», e anche ai «probabili effetti tossici cumulativi di un alimento» e alla «particolare sensibilità, sotto il profilo della salute, di una specifica categoria di consumatori, nel caso in cui l’alimento sia destinato ad essa». Tale disposizione stabilisce che gli alimenti conformi a specifiche disposizioni comunitarie riguardanti la sicurezza (art. 14, comma 7) sono considerati sicuri, mentre in assenza di disposizioni comunitarie specifiche vige una presunzione di sicurezza per i prodotti che siano conformi alla disciplina del Paese in cui sono commercializzati (art. 14, comma 9).

(56) Si v. D. Pisanello, cit., pag. 703: «Nell’ottica di un’efficace riduzione del rischio sanitario ma anche del rischio di responsabilità civile, la progettazione del prodotto rientra a pieno titolo nella diligenza, perizia e prudenza esigibili nei confronti dell’operatore professionale». L’autore rileva inoltre che «il prodotto non può più essere considerato esclusivamente nella sua nuda materialità ma anche nella componente di servizio, intendendosi per tale l’etichettatura e la documentazione di accompagnamento obbligatoria ope legis, l’impiego di tecnologia e l’apposizione di segni distintivi, le indicazioni nutrizionali, come pure i servizi di customer’s care, l’assistenza in garanzia ed anche i servizi connessi al ritiro e/o all’allerta lungo la filiera».

(57) L’Autorità europea per la sicurezza alimentare svolge i compiti di fornire le informazioni scientifiche necessarie all’elaborazione della legislazione dell’Unione, di raccogliere ed analizzare i dati che consentono la caratterizzazione e la sorveglianza dei rischi, effettuando su questi ultimi, in modo indipendente, un’attività di informazione. Si v. la Relazione sui conti annuali relativi all’esercizio 2010 dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare, corredata delle risposte dell’Autorità (2011/C 366/19) del 15 dicembre 2011. La valutazione del rischio nella catena alimentare, a livello nazionale, è svolta dal Segretariato Nazionale della Valutazione del Rischio della Catena Alimentare, riferimento dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare e coordinatore dei processi di valutazione del rischio. Il Comitato Nazionale per la Sicurezza Alimentare è l’organo tecnico-consultivo che agisce in collaborazione con il Ministero della Salute e con l’EFSA in materia di sicurezza alimentare e formula pareri scientifici nelle materie attinenti alla valutazione del rischio nella catena alimentare, su richiesta del Comitato strategico di indirizzo, delle Amministrazioni centrali e delle Regioni e Province. Una situazione di rischio è stata segnalata (notizia del 20 aprile 2010) con il parere scientifico sui rischi per la salute a causa della presenza di piombo negli alimenti. Gli esperti (gruppo CONTAM) dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) hanno rilevato che i livelli di esposizione al piombo costituiscono un rischio trascurabile per la salute degli adulti, ma presentano dei rischi per lo sviluppo neurologico dei bambini. Il gruppo CONTAM ha ritenuto che i cereali, gli ortaggi e l’acqua potabile possano contribuire all’esposizione alimentare al piombo della popolazione europea. Inoltre, nell’ambito del riesame degli additivi alimentari autorizzati nell’Unione europea dal Reg. UE n. 257/2010 della Commissione del 25 marzo 2010 (Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, L 80, 26 marzo 2010) che istituisce un programma relativo ad una nuova valutazione degli additivi alimentari autorizzati conformemente al Reg. CE n. 1333/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo agli additivi alimentari, l’EFSA ha adottato pareri scientifici sui coloranti: il nero brillante BN (E 151), utilizzabile in alimenti quali bibite, prodotti da forno e dolci, e il colorante marrone HT (E 155), utilizzabile nelle bibite, nei prodotti da forno e di pasticceria ed in salse, condimenti e sottaceti.

(58) Tali misure restrittive, quali il «divieto» di circolazione degli alimenti e dei mangimi, devono essere proporzionate al rischio e provvisorie in attesa di ulteriori informazioni scientifiche. Si v. A. Germanò, pag. 65, che effettua un raffronto con il sistema di interventi previsti negli Stati Uniti d’America, ove il risk assessment spetta agli organi federali, mentre la gestione del rischio è svolta dagli imprenditori. Per quanto concerne il profilo del risarcimento del danno, l’autore afferma che agli imprenditori «saranno addossati i danni nel caso in cui il rischio insito nei rispettivi prodotti si dovesse verificare». L’autore, inoltre, rileva che «(…) se nell’etichetta del prodotto è indicato il fattore di rischio, come nelle ipotesi delle sigarette, la gestione del rischio viene traslata sul consumatore, che non avrà più la possibilità di invocare il risarcimento dei danni che, con l’etichetta, gli sono stati prospettati come eventuali».

(59) In riferimento all’attività di controllo, il Reg. CE 882/2004 ha previsto l’istituzione del piano nazionale integrato pluriennale dei controlli ufficiali, che fornisce una rappresentazione sinottica delle attività di controllo ufficiale sul territorio nazionale nell’ambito degli alimenti, dei mangimi, della salute e del benessere degli animali, svolte dalle diverse amministrazioni competenti, al fine di ottimizzare e razionalizzare l’uso delle risorse disponibili e predisporre le basi affinché il controllo ufficiale sia basato sulla valutazione del rischio. Al riguardo, il Piano Sanitario Nazionale, par. 2.5, nel triennio 2011-2013 ha previsto che si dovrà pervenire ad un «completamento della categorizzazione dei rischi connessi alle diverse filiere produttive per garantire l’efficacia, l’appropriatezza, la qualità e la coerenza dei controlli ufficiali. Al riguardo, si vuole raggiungere l’obiettivo di pervenire ad un sistema omogeneo di raccolta di dati ed informazioni provenienti dal territorio che consenta una corretta valutazione del rischio, ad un’implementazione del sistema di auditing e ad una progressiva valorizzazione da parte del Governo centrale di interventi di sistema, stabilendo gli standard minimi di funzionamento, strumenti attraverso i quali si misurerà l’adeguata risposta delle Regioni e degli enti locali al dettato ministeriale». A livello nazionale è stato istituito un sistema di allarme rapido per alimenti e mangimi (SARAM) che fornisce velocemente informazioni sui rischi per il consumatore.

(60) La Circolare prot. n. 606/20.1/3/1110 del 15 maggio 2003 del Ministero della Salute ha indicato agli uffici periferici e alle Regioni e Province le competenze e le modalità in situazioni di «frode tossica o di prodotti nocivi o pericolosi per la salute pubblica». Le Regioni e le Province sono invitate a predisporre un sistema di allerta per assicurare il flusso delle comunicazioni tra centro e periferia e fornire gli indirizzi alle Aziende Sanitarie Locali. L’Ufficio VIII della Direzione Generale della sicurezza degli alimenti e della nutrizione del Ministero della Salute è il punto di contatto del sistema di allerta comunitario.

(61) Nel caso di rischio grave ed immediato (esempio tossina botulinica), oltre a disporre il sequestro dei prodotti tramite l’intervento dei Carabinieri per la Tutela della Salute e degli Assessorati Regionali, la procedura di emergenza può essere integrata con comunicati stampa. In questo caso s’informano i cittadini sul rischio legato al consumo di un determinato prodotto e sulle modalità di riconsegna dell’alimento all’ASL competente. Il 31 gennaio 2011 è entrato in vigore il Regolamento (UE) n. 16/2011 recante disposizioni di applicazione relative al sistema di allarme rapido per gli alimenti ed i mangimi. La Commissione Europea ha istituito sul proprio sito uno spazio apposito per la consultazione on line delle notifiche settimanali, weekly overview of alert and information notifications, trasmesse dai Paesi della Comunità. Il sito web consente di conoscere le notifiche settimanali divise in new alert notification per i prodotti a rischio presenti sul mercato europeo ed in new information notification per i prodotti non presenti sul mercato europeo o già sottoposti a misure di controllo dal Paese interessato.

(62) Si tratta di una tabella riassuntiva, attraverso cui gli enti sanitari territoriali possono conoscere le notifiche. Inoltre, è elaborata una relazione del Parlamento, «Vigilanza e controllo degli alimenti e delle bevande in Italia», ad oggetto le informazioni e le operazioni sul controllo della qualità dei prodotti alimentari lungo tutta la filiera produttiva.

(63) Secondo l’art. 18 consiste nella «possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime, attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione». Si v. A. Germanò, cit., pag. 71, il quale afferma che «l’obbligo della tracciabilità consente di far rientrare, nella disciplina comunitaria sulla sicurezza alimentare, anche quelle fasi dell’attività agricola, ovvero della coltivazione in senso stretto, espresse dall’aratura, dalla semina e dal diserbo (…)». L’autore rileva che «La tracciabilità o, meglio, la rintracciabilità consente di risalire a ritroso tutto il percorso dell’alimento fin dal suo momento iniziale come vegetale destinato a divenire alimento solo con il raccolto, ovvero come vegetale seminato, concimato, irrigato, diserbato, trattato con fitofarmaci. (…) Filiera che, per quanto riguarda gli animali, parte dalla nascita fino alla macellazione».

(64) Al riguardo, l’art. 3, punto 2, individua nell’«impresa alimentare» ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle operazioni di produzione, trasformazione, magazzinaggio, trasporto e distribuzione di alimenti. A tale stregua, l’«impresa alimentare» e l’«impresa mangimistica», previste dal reg. n. 178 del 2002, non coincidono con la nozione di impresa, prevista dall’art. 2082 c.c., né corrispondono all’impresa agricola, prevista dall’art. 2135 c.c. La distinzione dell’impresa alimentare dall’impresa agricola è ricavabile dall’art. 2, secondo cui non sono alimenti i vegetali prima della raccolta. A tale stregua, secondo parte della dottrina le attività agricole di stretta coltivazione (aratura, semina e diserbo) non possono rientrare nell’impresa alimentare, in quanto nell’ambito di tali fasi non vi sono dei prodotti qualificabili come «alimenti», che si ottengono con il raccolto. Si v. A. Germanò, cit., pag. 69, secondo cui «sotto questo profilo l’impresa alimentare chiaramente risulta non omologa dell’impresa agricola di cui all’art. 2135 del codice civile, nel cui esercizio sono comprese le attività di aratura, di semina e di diserbo, e che non si esaurisce nell’attività di raccolto che è invece, come si è detto, impresa alimentare. A tale stregua, colui che “opera” in uno qualsiasi di questi luoghi o momenti non si può definire imprenditore, ma operatore del settore alimentare e come tale responsabile del rispetto del regolamento nel compimento di ogni operazione (anche unica) “sotto il suo controllo”. Da ciò consegue che è sufficiente anche un solo atto di immissione dell’alimento nel mercato per individuare un’impresa alimentare, in quanto ciascuna di tali operazioni consente d’inserire il prodotto nel canale distributivo, che deve essere garantito a livello di sicurezza e di salute». Al riguardo, l’art. 3, punto 17, dispone che per «produzione primaria», ai fini dell’individuazione di un’impresa alimentare, si intende ogni fase della produzione, quali l’allevamento o la coltivazione dei prodotti primari, compresi il raccolto, la mungitura, la produzione zootecnica precedente la macellazione, la caccia, la pesca e la raccolta di frutti selvatici. Si v. A. Germanò, cit., pag. 69, il quale rileva che «non solo il cacciatore (per un solo atto di caccia), il pescatore occasionale (per un solo atto di pesca) ed il raccoglitore di funghi (per un solo atto di raccolta) sono “impresa alimentare” pur non essendo imprenditori ai sensi dell’art. 2082 c.c., ma altresì è “impresa alimentare” colui che procede al raccolto, colui che fa la mungitura, colui che macella gli animali, ovvero anche i c.d. contoterzisti, ossia i soggetti non agricoli». In riferimento agli atti obiettivi di commercio, previsti nei Codici italiani di commercio del 1865 e del 1882, nel Code de commerce francese del 1807 e nel Codigo mercantil spagnolo del 1885, l’autore rileva che «il compimento anche di uno solo di tali atti cadeva sotto la disciplina del codice di commercio» e l’impresa era individuata, non «in una serie coordinata di attività per la produzione di beni o di servizi, ma era di per sé uno degli atti obiettivi di commercio». Secondo l’autore, nel reg. n. 178 del 2002 «la filiera produttiva è stata segmentata nelle sue diverse fasi e ciascuna di esse è una “impresa alimentare”».

(65) Norme speciali sono dettate, per la tracciabilità dei prodotti costituenti o contenenti organismi geneticamente modificati (OGM), dal regolamento (CE) n. 1830/03 del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 settembre 2003 (in GU-UE n. L 268 del 18 ottobre 2003) sulla tracciabilità e l’etichettatura di organismi geneticamente modificati, di alimenti e mangimi ottenuti da organismi geneticamente modificati, che modifica la direttiva n. 2001/18/CE.

(66) Si v. A. Germanò, op. cit., pag. 71, secondo cui «la tracciabilità (…) è elemento di unificazione delle varie fasi di produzione del prodotto e opera, nello stesso tempo, come elemento di differenziazione, anche ai fini della responsabilità, dei singoli operatori». L’autore rileva che «l’individuazione del preciso responsabile, ovvero della fase e/o del momento in cui è sorto il pericolo, eviterebbe dannose generalizzazioni di paura e di rifiuto di quel determinato prodotto con ricadute economiche di non scarso rilievo su tutti i produttori e/o su tutti i prodotti interessati dall’emergenza».

(67) Il Regolamento di esecuzione (UE) n. 1371/2011 della Commissione del 21 dicembre 2011 ha modificato il regolamento di esecuzione (UE) n. 961/2011, che impone condizioni speciali per l’importazione di alimenti per animali e prodotti alimentari originari del Giappone o da esso provenienti, a seguito dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima. A seguito del controllo delle autorità giapponesi sulla presenza di radioattività negli alimenti per animali e nei prodotti alimentari, è emerso che alcuni alimenti per animali e prodotti alimentari provenienti da regioni vicine alla centrale nucleare di Fukushima continuano a contenere livelli di radioattività superiori ai massimi consentiti.

(68) Al riguardo, sussiste un dibattito in ordine all’applicazione delle regole della responsabilità civile. Si v. U. Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, Padova, 2004, pag. 85, secondo cui la disciplina di tale responsabilità può essere interpretata «funzionalmente ed elasticamente avendo a mente che il ruolo svolto dalle regole sull’imputazione del danno nell’incentivare l’adozione di comportamenti virtuosi nella gestione del rischio e per la prevenzione degli incidenti può variare considerevolmente nel tempo in ragione dell’evoluzione tecnologica ed organizzativa del tipo di attività (potenzialmente dannosa) preso in considerazione». In riferimento all’art. 2043 c.c., sussistono delle difficoltà derivanti dall’accertamento dell’elemento soggettivo (il dolo e la colpa) e nella determinazione di un rapporto di causalità e del danno. Parte della dottrina, si v. L. Boisson de Chazournes, Le principe de précaution: nature, contenu et limites, AA.VV., Le principe de précaution – Aspects de droit international et communautaire, diretto da C. Leben J. Vertroven, Paris, 2002, pagg. 69-72, rileva che tali danni sono di complesso accertamento «sul piano della loro localizzazione, del momento del loro accadimento (inquinamenti differiti), della loro frequenza (carattere ripetitivo o unico), della loro durata (danni reversibili o irreversibili), della loro ampiezza (effetti cumulativi o sinergici, danni gravi o insignificanti)». In riferimento all’applicazione dell’art. 2050 del codice civile, si v. S. Izar, La responsabilità per esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.), in Codice ipertestuale della responsabilità civile, a cura di G. Bonilini, U. Carnevali, M. Confortini, Milano, 2008, pag. 332, il quale rileva l’orientamento espresso dalla giurisprudenza e da parte della dottrina, secondo cui è configurabile una responsabilità per colpa, in base alla quale l’esercente l’attività pericolosa sarebbe gravato da uno specifico onere di diligenza per la potenzialità lesiva dell’attività. Tale impostazione è criticata ove afferma che la «codificazione del criterio di precauzione legittima l’esistenza di un “giudizio di incertezza” a livello scientifico allo stato attuale della conoscenza degli effetti», e che è stata introdotta nel sistema «la novità della disciplina di un pericolo di rischio tale da giustificare, in una parificazione della potenzialità di danno con il pericolo di danno, il ricorso ad un’azione di protezione anche in assenza di una piena certezza scientifica». Secondo parte della dottrina, «l’operatività del principio di precauzione» è da collocare in una zona intermedia tra lo schema della colpa ed il criterio della responsabilità oggettiva, secondo una lettura dell’articolo 2050 del codice civile che «fa carico all’esercente del dovere di adottare un’organizzazione preventiva con tutti gli accorgimenti tecnici idonei ad evitare il danno nei termini di responsabilità per un rischio oggettivamente evitabile». Si v. Mirko Faccioli, La responsabilità della struttura sanitaria per carenze strutturali ed organizzative, La responsabilità civile, 2006, pag. 515 ss. Altra parte della dottrina e della giurisprudenza inquadra l’attività pericolosa tra le ipotesi di responsabilità oggettiva. A tale stregua, il risarcimento del danno derivante dall’esercizio di tale attività è imputabile a colui che la svolge, a prescindere dall’osservanza di un obbligo di condotta diligente. Si v. C. Manna, Principio di precauzione e lesioni da radiazioni ionizzanti, Napoli, 2003, pagg. 172-173. Secondo tale impostazione, in tema di accertamento della responsabilità dell’evento lesivo dell’altrui salute, il nesso di causalità è «dimostrabile tutte le volte che, in una fase di incertezza scientifica, vi siano ragionevoli motivi per ritenere che sussista la concreta possibilità che un danno sia dovuto ad un determinato agente». Per ciò stesso il nesso di causalità sarebbe «anticipato al momento della possibilità, poiché la possibilità stessa è tutelata dal principio di precauzione, che consente di equipararla alla probabilità nel giudizio di causalità». In conclusione, a livello dottrinario si è espresso un mutamento di prospettiva, che attribuisce maggiore rilevanza alla posizione del soggetto danneggiato, secondo cui «acquista valore primario la garanzia dell’effettività della riparazione del danno, finendo per prevalere sulla ricerca dell’elemento soggettivo della colpa». Si v. F. Trimarchi, Principio di precauzione e «qualità» dell’azione amministrativa, Rivista italiana di diritto pubblico amministrativo, pagg. 1673-1705.

(69) Si v. D. Pisanello, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2008, n. 4, pag. 702, secondo cui «si richiede (…) che le imprese alimentari siano in grado di dimostrare all’autorità di controllo che esse monitorano e controllano la conformità ai requisiti posti, che sono à la fois legislativi, microbiologici, tecnologici, ecc.». L’autore precisa che «il termine controllo (…) debba essere inteso come corrispondente al significato del termine inglese control che, nella terminologia propria del settore, indica qualcosa di più del semplice monitoraggio comprendendo anche ciò che in lingua italiana si suole indicare col termine gestione».

(70) Si v. D. Pisanello, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2008, n. 4, pag. 703, secondo cui «nell’ottica di un’efficace riduzione del rischio sanitario ma anche del rischio di responsabilità civile, la progettazione del prodotto rientra a pieno titolo nella diligenza, perizia e prudenza esigibili nei confronti dell’operatore professionale». L’autore rileva, inoltre, che «il prodotto non può più essere considerato esclusivamente nella sua nuda materialità ma anche nella componente di servizio, intendendosi per tale l’etichettatura e la documentazione di accompagnamento obbligatoria ope legis, l’impiego di tecnologia e l’apposizione di segni distintivi, le indicazioni nutrizionali, come pure i servizi di customer’s care, l’assistenza in garanzia ed anche i servizi connessi al ritiro e/o all’allerta lungo la filiera».

(71) Si v. L. Costato, Sicurezza alimentare, etichettatura e informazione, Economia e diritto agro-alimentare, n. 2, 2005, pagg. 11, 14 e 15.

(72) La dottrina ha distinto il danno da prodotto, derivante da difetti di costruzione, di fabbricazione e d’informazione. I difetti di costruzione riguardano l’intera serie prodotta e possono consistere nell’errata progettazione, nella scelta dei materiali o nelle tecniche di produzione. I difetti di fabbricazione possono riguardare uno o più elementi della serie, per il resto priva di vizi. I difetti d’informazione consistono nell’immettere nel mercato un prodotto senza adeguate o complete istruzioni sulle modalità di impiego e sui pericoli connessi all’uso. A tale dovere d’informazione è correlato l’obbligo del produttore di «seguire il prodotto» dopo l’immissione nel mercato. Si v. C. Piergalini, Danno da prodotto e responsabilità penale, Milano, 2004, 47. Si richiamano alcuni casi di difetti del prodotto agroalimentare determinati da vizi di fabbricazione. Nel maggio 1981 si diffuse un’epidemia in Spagna, consistente nella comparsa di pneumonie intestinali, determinata da un’intossicazione alimentare derivante da olio di colza contaminato. Il Tribunale Supremo riconobbe il nesso di causalità tra la contaminazione dell’olio e le intossicazioni riscontrate. Un altro caso riguarda il pollo alla diossina, oggetto della decisione 1999/551/CE della Commissione del 6 agosto 1999. A seguito di intossicazioni alimentari si risalì alla ditta produttrice di grassi per l’alimentazione animale, sospettata di aver acquistato partite di oli di frittura esausti, integrati con altri oli, successivamente impiegati nella produzione di mangimi per animali. Si sospettò che oli minerali provenienti da industrie e da centrali elettriche potessero essere stati aggiunti ai residui di frittura. Invero, gli oli esausti trattati ad alte temperature rilasciano un veleno, il policloro bifenile, rintracciato nel mangime. Si pervenne alla conclusione che si sarebbero usate materie prime tossiche per ridurre i costi di produzione del mangime. Pertanto la Commissione CE ne vietò la commercializzazione. Tra i difetti di fabbricazione possono essere annoverati anche i casi di contaminazione dell’alimento, nelle varie fasi del ciclo produttivo, derivante da sostanze estranee, quali schegge di legno, sassolini o terra, frammenti di plastica o vetro, pezzetti metallici, capelli e secrezioni. Inoltre gli alimenti possono essere contaminati da sostanze chimiche per residui di detergenti e disinfettanti, e da sostanze tossiche formatesi durante le lavorazioni. Inoltre, negli alimenti possono essere presenti i residui di fitofarmaci (pesticidi, diserbanti, anticrittogamici) a causa dell’inadeguato impiego di tali sostanze in agricoltura. I residui di antibiotici, ormoni ed anabolizzanti, utilizzati per favorire lo sviluppo delle masse muscolari del bestiame, sono rinvenibili nella carne, in prodotti derivati e lattiero-caseari.

(73) La responsabilità per danni arrecati a terzi a causa dell’immissione in commercio di prodotti difettosi include, per il combinato disposto delle direttive comunitarie n. 374/85/CEE, recepita nel D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, e n. 34/1999/CE, recepita nel D.Lgs. 2 febbraio 2001 n. 25, i prodotti agricoli del suolo, dell’allevamento, della pesca e della caccia, anche privi di trasformazioni. Si tratta dei beni agricoli primari che, esclusi dall’ambito dei prodotti previsti dalla direttiva n. 374/85/CEE, qualora non avessero subito trasformazioni in grado di modificarne le caratteristiche anche mediante l’aggiunta di sostanze, vi sono stati ricompresi dalla direttiva n. 34/1999/CE. Invero, per i prodotti alimentari primari di origine animale e vegetale, si è avvertita l’esigenza di una maggiore tutela del consumatore per i rischi derivanti da malattie trasmesse da animali (tubercolosi, salmonellosi). Al riguardo è opportuno esaminare la ratio dell’intervento comunitario, espressa dal primo considerando della direttiva n. 374 del 1985 secondo cui «le disparità esistenti fra le legislazioni possono falsare il gioco della concorrenza e pregiudicare la libera circolazione delle merci all’interno del mercato comune, determinando disparità nel grado di protezione del consumatore contro i danni causati alla sua salute e ai suoi beni da un prodotto difettoso». L’art. 1 della direttiva stabilisce che «il produttore è responsabile del danno causato da un difetto del suo prodotto», introducendo un’ipotesi di responsabilità oggettiva che prescinde dall’accertamento della colpa. Secondo il terzo considerando, «solo la responsabilità del produttore, indipendente dalla sua colpa, costituisce un’adeguata soluzione del problema, specifico di un’epoca caratterizzata dal progresso tecnologico, di una giusta attribuzione dei rischi inerenti alla produzione tecnica moderna».

(74) In riferimento al fornitore che ha distribuito il prodotto nell’esercizio della sua attività commerciale, l’art. 116 ne afferma la responsabilità, quando il produttore non è individuato, ove il primo non abbia comunicato al danneggiato, entro tre mesi dalla richiesta, l’identità e il domicilio del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto. Si prevede che tale richiesta debba essere fatta per iscritto ed indicare il prodotto che ha cagionato il danno, il luogo e la data dell’acquisto.

(75) Si v. P. Bortone e L. Buffoni, La responsabilità per prodotto difettoso e la garanzia di conformità nel codice del consumo, Torino, 2007, pag. 32 ss.

(76) Secondo D. Pisanello, cit., pag. 734, il riconoscimento e la comunicazione dell’inidoneità dell’alimento (ad esempio per la presenza di forature) sono complessi per la non rintracciabilità del prodotto difettoso. L’autore rileva le cause di tale ostacolo nel fatto che «l’alimento è solitamente consumato a breve distanza dall’atto di acquisto e ciò comporta l’accorciamento dei tempi utili alla reazione; inoltre l’acquisto finale è solitamente perfezionato con moneta contante, senza volere fare riferimento alla dimensione del consumo alimentare». Secondo tale autore, ai sensi dell’art. 122, comma 2, del codice del consumo, «una campagna di avviso (warning) e di richiamo potrebbe in astratto porre le premesse per l’applicazione della fattispecie della riduzione della responsabilità (del quantum) per esposizione cosciente al pericolo». Tuttavia, l’autore rileva che «un piano di richiamo e di comunicazione dell’allarme, limitando in astratto il numero di pretese risarcitorie e la lesione dell’immagine del brand, ben può assolvere ad una funzione di riduzione del danno atteso, mentre, in sede contenziosa, tale funzione sembra essere meno efficace». Inoltre l’autore rileva una criticità nel regime probatorio, in quanto «si tratterebbe di dimostrare che il consumatore danneggiato sia stato reso dall’impresa edotto del rischio alimentare connesso al consumo di quel dato prodotto».

(77) L’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha espresso una valutazione favorevole relativa ad altre sostanze che sarebbe opportuno inserire nell’elenco. Per alcune di tali sostanze l’Autorità ritiene opportuno modificare le restrizioni e/o specifiche stabilite a livello dell’UE. Per limitare gli oneri amministrativi gravanti sugli operatori, i materiali ed oggetti in materia plastica, commercializzati legalmente sulla base dei requisiti fissati nel regolamento (UE) n. 10/2011 e non conformi a tale regolamento, dovrebbero poter rimanere sul mercato sino ad esaurimento delle scorte.

(78) In Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L 328/23 del 10 dicembre 2011.

(79) Inoltre, l’art. 5.1, comma 3°, della direttiva sulla sicurezza generale dei prodotti (dir. n. 2001/95) prevede che «(…) nei limiti delle rispettive attività, i produttori devono adottare misure proporzionate, in funzione delle caratteristiche dei prodotti da essi forniti, onde: a) essere informati sui rischi che tali prodotti potrebbero presentare; b) intraprendere le azioni opportune, compresi, se necessario per evitare tali rischi, il ritiro dal mercato, l’informazione ap­propriata ed efficace dei consumatori e il richiamo del prodotto». Il rapporto tra tale direttiva e la disciplina interna dei Paesi membri è stato oggetto di scontro con la Corte di Giustizia. I primi hanno sostenuto la possibilità, per le discipline interne, di prevedere forme più incisive di tutela dei consumatori danneggiati. La Corte di Giustizia, secondo l’esegesi letterale e a garanzia dell’uniformazione del diritto negli Stati membri, ha affermato l’incompatibilità con la direttiva di una normativa interna di recepimento più severa nei confronti del produttore e più favorevole per il consumatore. L’art. 13, in merito alle deroghe in melius, stabilisce che restano «impregiudicati i diritti che il danneggiato può esercitare in base al diritto relativo alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale o in base ad un regime speciale di responsabilità esistente al momento della notifica della direttiva», e che non si può lasciare agli Stati membri la possibilità di mantenere un regime differente dalla disciplina prevista dalla direttiva. Secondo la Corte di Giustizia (sentenze 25 aprile 2002: causa C- 52/00, Commissione c. Francia, punto 16; causa C- 154/00, Commissione c. Grecia, punto 12; causa C- 183/00, Gonzales, punto 25), «il margine discrezionale di cui dispongono gli Stati membri al fine di disciplinare la responsabilità per danno da prodotti difettosi è totalmente determinato dalla direttiva stessa e deve essere dedotto dal tenore letterale, dalla finalità e dall’economia di quest’ultima». Quest’orientamento giurisprudenziale, criticato, ha trovato una consolidazione in un caso affrontato dalla Corte di Giustizia, 10 gennaio 2006, causa C- 402/03, Skov Aeg. L’ordinamento danese, prima della direttiva, estendeva la responsabilità del produttore anche al fornitore del prodotto. L’art. 3 della direttiva stabilisce che «quando non può essere individuato il produttore del prodotto, si considera tale ogni fornitore a meno che quest’ultimo comunichi al danneggiato, entro un termine ragionevole, l’identità del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto». Il giudice nazionale sollevava la questione della compatibilità del diritto danese con la direttiva comunitaria. Secondo la Corte non è conforme alla direttiva una disciplina nazionale che prevede una responsabilità del fornitore negli stessi termini del produttore (in maniera oggettiva), al di fuori dei limiti previsti dall’art. 3. Infatti, «poiché la direttiva persegue un’armonizzazione totale sui punti da essa disciplinati, la determinazione della cerchia dei responsabili operata dagli artt. 1 e 3 della direttiva stessa dev’essere considerata tassativa» (punto 33). Secondo quanto espresso dalla Corte di Giustizia sembra che non sia così libera la scelta degli Stati membri di optare per un modello di regolamentazione di taluni problemi che pone il mercato, caratterizzato da uno standard più elevato di tutela del consumatore. La Corte esprime dei dubbi nella parte (punto 44) ove afferma: «per quanto riguarda l’argomento del Governo danese secondo il quale questa interpretazione della direttiva è tale da comportare in Danimarca un abbassamento del livello di tutela del consumatore, occorre rilevare che un’eventuale estensione ai fornitori della responsabilità istituita dalla direttiva rientra nella competenza del legislatore comunitario, al quale spetta procedere, se del caso, ad una modifica delle disposizioni interessate». Su questa tematica v. G.A. Pennacchio, La Corte di Giustizia tra armonizzazione e unificazione del diritto europeo dei contratti, in Riv. dir. civ., 2006, pag. 131 ss.

(80) Su tale dibattito si v. S. Della Bella, Casi di esclusione della responsabilità per il prodotto difettoso (art. 118 D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), in Cod. ipertestuale della resp. civ., a cura di G. Bonilini, U. Carnevali, M. Confortini, Milano, 2008, pag. 834.

(81) L’ipotesi tradizionale riguarda la sostanza innocua al momento della produzione, ma che si rivela pericolosa a seguito dell’evoluzione delle conoscenze. Un’impostazione dottrinaria ha individuato tali rischi nelle ipotesi in cui non si possono individuare prima della commercializzazione del prodotto, né attraverso la sperimentazione, né in base a test controllati su volontari, in quanto possono emergere soltanto dopo l’immissione sul mercato. Un’altra situazione di esclusione della conoscibilità del difetto si verifica quando la nocività del prodotto non è stata accertata, in quanto i dati tecnici sono controversi e dibattuti dalla comunità scientifica. Si v. U. Izzo, in La precauzione nella responsabilità civile, Padova, 2004, pagg. 442-443, che sottolinea la preoccupazione del legislatore europeo di evitare forme di risarcimenti legati a rischi da produzione non oggettivamente conoscibili prima della commercializzazione.

(82) In riferimento a quest’ultimo orientamento, si v. A. Cordiano, in Sicurezza dei prodotti e tutela preventiva dei consumatori, Padova, 2005, pagg. 224-225.

 (ARTICOLO  SCRITTO  NEL  2012)